Come volevasi dimostrare, i pasti gratis non esistono. In compenso, esiste l’ipocrisia. Tanta. Perché scatenare l’ennesimo can can di indignazione pavloviana di fronte alle parole del vice-presidente esecutivo della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, rientra a pieno in questa categoria politica. Prima ancora che umana. Cosa ha detto, infatti, il falco lettone? Che Italia, Cipro e Grecia hanno ancora un carico debitorio eccessivo, quindi occorre prudenza nell’utilizzo dei fondi europei, i quali dovrebbero infatti essere prioritariamente incanalati in ottiche di investimento. Tradotto, basta provvedimenti spot per comprare consenso. Si sa, l’Europa può apparire un pianeta lontano, ma nell’età dei media globali, ogni refolo elettorale italiano arriva in tempo reale anche a Bruxelles. E Berlino. E il buon Valdis Dombrovskis non ha fatto altro che sposare la teoria del dentifricio: prevenire – in vista di un appuntamento elettorale autunnale che per la sua portata simbolica e di coinvolgimento numerico vale come un turno legislativo – è meglio di curare. Tradotto, piano con le mance e mancette.
Sgradevole, magari. Ma semplicemente perché abbiamo la coda di paglia sull’argomento: in cuor nostro, sappiamo benissimo che le cose sono sempre andate così. Piaccia o meno, l’Europa si aspetta dal nostro Paese un impegno concreto: una politica di consolidamento dei conti pubblici. Ovvero, al netto dei 209 miliardi del Recovery Fund, quella ratio debito/Pil lievitata al 160% deve scendere. E qui la questione si complica. Perché per quanto forte di un presidente del Consiglio apparentemente svincolato dai giochi della politica e dotato di un profilo internazionale che gli consente di giocare alla pari sui tavoli che contano, l’Italia deve fare i conti con gli appetiti particolari e particolaristici di una coalizione di governo a dir poco composita. E che, pur non ammettendolo, sta già oliando e lucidando i fucili nell’arsenale in vista del post-Draghi. Usando irritualmente e irrispettosamente persino la corsa al Colle come riscaldamento pre-partita.
Volete la sintesi dei perché l’Europa fa bene a mettere i puntini sulle i fin da principio? Ce la offre questa prima pagina del 3 giugno: ci vuole del coraggio, infatti, dopo 30 miliardi abbondanti di fondi Sure che hanno tolto le castagne della cassa integrazione dal fuoco, 209 miliardi ufficiali di Recovery Fund e soprattutto l’ascesa della Bce al ruolo salvifico di prestatore di unica istanza del nostro debito, a fare un titolo d’apertura del genere. Occorre proprio sforzarsi, perché i numeri parlano chiaro. E arrivare a negarli merita un plauso, quantomeno alla sfacciataggine.
Il problema è che questo tipo di impostazione veleggia sottotraccia in gran parte della classe politica italiana, da destra a sinistra. Tutto è dovuto, chiagni e fotti. L’alibi perfetto, il capro espiatorio pronto uso e acchiappa-like sui profili social: Bruxelles matrigna, Berlino carnefice. E guai a chi ha l’ardire di far notare come l’occasione che ci si para davanti, stavolta non possa andare sprecata: immediati si alzano gli alti lai contro l’austerity che ha generato migliaia di morti fra i bambini greci e che ora farà strame dell’italica infanzia, in nome del rigorismo tedesco. Peccato che questa volta, l’Europa difficilmente si farà prendere per i fondelli. E il primo a saperlo, è proprio Mario Draghi.
Perché signori, piaccia o meno ricordarlo, c’era anche la sua firma accanto a quella del governatore uscente, Jean-Claude Trichet, sulla mitica lettera della Bce al Governo Berlusconi dell’estate 2011, di fatto la sconfessione del ministro Tremonti e della sua linea economica. Al netto delle manine italiane che aiutarono la redazione di quella missiva, alcune delle quali oggi poggiano su scranni ministeriali, il dato di fatto è che lo stock di debito italiano è ingestibile. Da allora. Ed è sempre peggiorato. Figuriamoci oggi, dopo gli scostamenti monstre anti-pandemia. Non a caso, finora nessuno in ambito Ue aveva aperto bocca. Ma ora i dati macro parlano chiaro per l’eurozona e certe deviazioni devono rientrare nel loro alveo, pena derive paradossalmente pericolose quanto i tonfi del Pil dello scorso anno, ancorché di senso opposto.
E quando il presidente dell’Europarlamento, a fronte dei dati in continuo miglioramento, rilascia un’intervista in cui ritiene necessario un raddoppio del Recovery Fund per cementare la ripresa, il minimo che ci si possa aspettare è l’altolà del Valdis Dombrovskis di turno. E guardate questo grafico, tanto per dare a Cesare ciò che gli compete: il cosiddetto effetto Draghi non esiste.
Nel momento in cui l’ex governatore Bce è entrato a palazzo Chigi, il nostro differenziale sul Bund era già al minimo. Poi è risalito sull’onda recente del trend da taper tantrum globale, salvo poi ritornare in parabola discendente nell’ultima settimana: causalmente, in concomitanza con il secondo controvalore assoluto di acquisti settimanali della Bce in seno al Pepp. Quel trend che consente al nostro Paese di finanziarsi a costi gestibili, nonostante un 160% di ratio debito/Pil, è dovuto unicamente alla Bce. Mario Draghi è il garante, il collaterale di credibilità accettato come garanzia. Tradotto, se viaggiamo in area 100 punti base è grazie solo all’Europa. La stessa che adesso torna a essere cattiva, solo perché ci invita a non utilizzare il tesoretto per idiozie di varia foggia in vista del voto autunnale o di quello già nell’aria del post-semestre bianco. Lesa maestà, insomma.
E attenzione, perché nel giorno in cui Valdis Dombrovskis suonava la campanella e decretava la fine della ricreazione, dalle colonne del Financial Times tornava a farsi sentire un vecchio amico dell’Italia e di Mario Draghi in particolare, Wolfgang Schaeuble. E le parole riservate dall’ex ministro delle Finanze tedesco e ora presidente del Bundestag all’inquilino di palazzo Chigi, sotto forma di contributo alla discussione dal titolo Europe’s social peace requires a return to fiscal discipline e accompagnato da una rassicurante – quanto fiorviante – fotografia di John Maynard Keynes, lasciano poco margine all’interpretazione. Eccole: «Lasciati a se stessi, i membri di una confederazione di Stati rischiano di soccombere alla tentazione di contrarre debiti a spese della comunità… Ho discusso più volte di questo “azzardo morale” con Mario Draghi. Siamo sempre stati d’accordo che, data la struttura dell’Unione monetaria europea, la competitività e le politiche finanziarie sostenibili sono responsabilità degli Stati membri. Sono sicuro che (Draghi) intende sostenere questo principio come presidente del Consiglio italiano». Di fatto, una garbata minaccia di commissariamento tramite la Commissione travestita da messa in guardia verso il rischio di una pandemia del debito che segua quella del Covid. E con un italiano nel ruolo di commissario agli Affari economici, stavolta sarà proprio dura per Roma riuscire a svicolare.
La faccia di Paolo Gentiloni nella conferenza stampa congiunta con Valdis Dombrovskis, in effetti, parlava da sola. E occorre ricordare come l’abbinata Financial Times-Wolfgang Schaeuble sia tutt’altro che rassicurante o benaugurante per il nostro Paese. Era infatti il 5 settembre 2011, quando l’allora guardiano dei conti teutonici scrisse un articolo dal titolo Why austerity is only cure for the eurozone: il tutto, in piena crisi dei debiti sovrani e con il nostro Paese ancora fresco di lettera della Bce, spread già imbizzarrito, Borsa in subbuglio e prospettive alle porte di un autunno da incubo che porterà all’approdo novembrino di Mario Monti a palazzo Chigi.
Attenzione, quindi, a sovrane e autarchiche alzate di ingegno, questa volta. Il segnale per capire quanto sia grave l’allarme? Al netto di quanto deciderà giovedì prossimo il board dell’Eurotower, se il presidente del Consiglio creerà una task force estiva al Tesoro significherà che la trincea va rinforzata. E che l’autunno elettorale – fra voto amministrativo italiano e legislativo in Germania – sarà decisamente burrascoso.
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