Questo articolo è stato difficile da scrivere. Molto difficile. Perché quando devi dare conto dell’irrazionalità, il rischio è quello di venirne risucchiato. Di giustificarla in qualche modo. Addirittura, immedesimarti e ritenerla normale. E invece, questo è il momento in cui è necessario restare lucidi.
Perché quando la numero uno della Bce comincia la propria conferenza stampa parlando unicamente di inflazione in rialzo in base a un trend che proseguirà e si intensificherà, di bilanciamento dei relativi rischi già in revisione, mentre dall’altra parte dell’Oceano il dato CPI appena diffuso mostra una lettura del 5,0% su base annua – ovviamente, transitoria -, come mostra il grafico, l’impressione è quella di essere precipitati in una sceneggiatura del Quentin Tarantino più allucinato e lisergico. Perché, contemporaneamente, ti trovi a dover commentare la scelta della Bce di proseguire con acquisti accelerati anche per il terzo trimestre. E le braccia, allora, tendono a cedere alla forza di gravità. Precipitando al suolo.
Probabilmente, l’inflazione si batte con politiche espansive. Decenni interi di studi economici non avevano capito nulla: a questo punto, l’accoppiata Powell-Lagarde si candida di diritto al prossimo Premio Nobel. A quel punto, cerchi altrove delle risposte. E le trovi. In primis, abbandonando del tutto il fronte economico e gettandoti su quello politico: stando all’ultimo sondaggio commissionato dalla tv tedesca ZDF, in vista delle elezioni legislative del 26 settembre, la Cdu di Angela Merkel avrebbe guadagnato 4 punti, attestandosi al primo posto con il 28% delle preferenze. Mentre i Verdi, contemporaneamente, avrebbero perso altri 3 punti percentuali a livello nazionale, scendendo al 22%.
La Bundesbank, dopo il sospiro di sollievo del voto regionale in Sassonia-Anhalt, ora sa quale sia il vero orizzonte temporale, una volta messo in cassaforte il risultato più importante: ovvero, evitare come la peste che i Verdi con la loro agenda filo-Qe perenne prendano in mano il governo. Ecco allora che le resistenze all’interno del board cadono, i falchi tornano nel nido in attesa che il nemico si schianti da solo e la Bce può permettersi il lusso di arrivare all’appuntamento spartiacque con un comunicato che è identico a quello di aprile. Identico. Se non per una parola: al posto di current, compare coming. Ovvero, il ritmo di acquisti obbligazionari proseguirà in modo più spedito rispetto ai primi mesi dell’anno anche nel trimestre entrante e non più solo relativamente a quello in corso. Insomma, tregua estiva garantita da drenaggi di bond che molto probabilmente si stabilizzeranno sulla quota da Fed di 80 miliardi al mese. Almeno fino a ottobre.
Ed ecco che, calendario alla mano, tutto sembra quadrare. Al netto del board del 21-22 luglio, praticamene inutile alla luce di quanto comunicato ieri e quasi certamente dedicato solo ai saluti prima delle vacanze, Christine Lagarde ha ottenuto un altro risultato: blindando gli acquisti del prossimo trimestre, cioè il terzo dell’anno, anche il board dell’8-9 settembre perderà la sua connotazione di appuntamento di revisione del programma. Di fatto, un’altra mera occasione di incontro, tanto per valutare i dati di acquisto e rassicurare tutti sulla natura sempre e comunque transitoria dell’inflazione (nel frattempo probabilmente in area 3,5% per la Germania entro fine anno). Il 26 settembre, poi, il voto politico tedesco. Il vero e unico evento spartiacque europeo, in realtà. E la riunione del board seguente? Molto più in là: il 27-28 ottobre. Di fatto, la rimonta della Cdu in vista delle legislative ha garantito alla Bce una tregua fino a fine anno, oltretutto con possibilità di acquisti mensili sui massimi. Quando invece, il rischio era quello di un taper a partire già da settembre-ottobre. Così facendo, difficilmente si entrerà in regime di contrazione degli aiuti a due mesi dalle scadenze di fine anno, le banche ci resterebbero malissimo. O, comunque sia, lo si farà gradualmente.
Attenzione però all’arma a doppio taglio insita in questa vittoria di Pirro di Christine Lagarde su un Jens Weidmann per l’ennesima volta costretto prima alla mediazione e poi alla ritirata strategica dalla rediviva Cancelliera uscente. Tutto, realmente tutto, ora dipenderà davvero dal mercato. L’epoca dei magheggi politici e dei calcoli è terminata, perché l’orizzonte temporale strappato ieri dalla Bce di fatto va a coincidere con quello di fine pressoché naturale del Pepp. Ovvero, al massimo il marzo 2022. Cosa potrebbe cambiare all’orizzonte?
Due cose, ovviamente. Primo, proprio l’inflazione. La quale, se dovesse smentire del tutto la vulgata relativa alla transitorietà, potrebbe davvero andare fuori controllo e costringere anche il più creativo e ottimista dei banchieri centrali a bloccare di colpo i programmi di stimolo. E, magari, azzardare addirittura un annuncio di rialzo dei tassi. A quel punto, i funambolismi della Bce si ritroverebbero a camminare su un filo senza rete di protezione al di sotto. Secondo, il Covid. Finora, infatti, soltanto il virus ha permesso a tutte le Banche centrali di ignorare o minimizzare il trend di aumento generalizzato dei prezzi, in nome della lotta alla pandemia e al suo fallout macro-economico. Ma se, come sembra, ora quell’incubo sanitario appare alle spalle, cosa potrebbe garantire una nuova e funzionale distrazione di massa dei mercati? Magari, un bel conflitto. Anzi, la sua creazione ad arte e il suo atto prodromico. Come avvenne per mesi con la Corea del Nord, come continua ciclicamente ad accadere con l’Iran.
Proprio ieri, prima della pubblicazione del dato sul CPI, negli Usa si è infatti scoperto che la JBS, leader nella lavorazione e distribuzioni carni in America, avrebbe pagato 11 milioni di dollari di riscatto in criptovalute a degli hacker russi per veder terminare l’attacco informatico che ne bloccò 12 stabilimenti in tutti gli Usa lo scorso fine settimana. Russiagate 2.0. In progress, oltretutto. E alla vigilia di un G7 in Cornovaglia che vede Joe Biden esplicitamente intenzionato a trascinare di forza i partner nella sua agenda anti-Mosca e anti-Pechino. E restando in tema di valute digitali, sempre ieri il Comitato di Basilea ha clamorosamente dato vita a una legittimazione di Bitcoin e soci, pur sottoforma di mossa punitiva. I regolatori del sistema bancario, infatti, hanno proposto accantonamenti record per gli istituti che intendano detenere criptovalute a bilancio: apparentemente, una scelta di deterrenza. In realtà, la presa d’atto del loro valore di assets. Non a caso, appena diffusa la notizia, Bitcoin è salito.
Insomma, quello appena terminato è stato davvero un Super Thursday, nonostante sia apparso prevalere il fumo sull’arrosto. In realtà, la carne messa sul fuoco è stata molta. Moltissima. Anche troppa. Qualcosa è destinato a bruciarsi. E la dimostrazione arriva da questo grafico: mercoledì, infatti, la facility di reverse repo della Fed ha sfondato il record assoluto di 500 miliardi di utilizzo.
Di fatto, il Qe sta letteralmente affogando le banche di liquidità. Talmente tanta da vedere gli istituti obbligati a depositarla appunto presso la Banca centrale, ottenendo in cambio come collaterale di garanzia i medesimi Treasuries che questa drena mensilmente dal mercato per 80 miliardi di controvalore. Di fatto, il gioco delle tre carte. Con l’inflazione al 5%. E la quasi certezza che ogni minimo movimento in direzione restrittiva della politica monetaria farebbe crollare l’intero castello di carta.
Forse, il granello di sabbia che rischia di far grippare il meccanismo non dovrà essere atteso a fine settembre con il voto tedesco. Potrebbe arrivare a fine agosto da Jackson Hole. Russia e Covid permettendo, ovviamente. Attenti quindi a salutare con troppo entusiasmo la spider di Christine Lagarde che sfreccia in stile Il sorpasso, sfoderando un virtuale gesto dell’ombrello verso la Bundesbank: perché ha i freni sabotati. E le curve, prima o poi, arrivano.
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