Davvero Jerome Powell ha deluso i mercati e, soprattutto, la Casa Bianca, tagliando solo di un quarto di punto il costo del denaro? Stando alla reazione di Wall Street di mercoledì sera e al tweet di fuoco di Donald Trump – “Come al solito, Jay ci ha abbandonato” – parrebbe di sì. Ma attenzione, perché la partita entra nel vivo solo ora. E il Presidente ha ottenuto un’enorme vittoria, forse la più grande da quando è arrivato a Pennsylvania Avenue: ha domato la Fed. Ne ha, di fatto, messo pubblicamente in dubbio l’autorevolezza e minato la credibilità, gridando al mondo che il Re del rallentamento economico è nudo e che quella nudità è tutta da imputare alle scelte sbagliate di politica monetaria. Lui, di fatto e mediaticamente, esce candido come l’olandesina dello spot del detersivo di quando ero piccolo. E lo fa, con tutte le carte ancora in mano da giocare, quando la campagna elettorale delle presidenziali è appena iniziata.



In effetti, la sua è la classica opzione win-win adesso. Per quanto Jerome Powell possa arrampicarsi sugli specchi, la realtà è sotto gli occhi di tutti: un iceberg di dimensioni epocali sta viaggiando spedito sotto il pelo dell’acqua e l’unico modo per evitare che impatti del tutto con i mercati è respingerlo, annegandolo. E con cosa? Liquidità, ovviamente. Che, di certo, non verrà liberata in maniera sostanziale dal taglio di 25 punti base. Ma la realtà sta nei dettagli. Per cercare di salvare la faccia, il numero uno delle Fed ha infatti sfiorato più volte il ridicolo nella sua conferenza stampa. Prima parlando della mossa sui tassi come di “un aggiustamento di metà ciclo e non dell’inizio di un trend espansivo”, facendo trarre agli indici l’ovvia conseguenza che si trattasse della classica one and done, ovvero un taglio precauzionale (e, di fatto, inutile se di questa entità e non seguito da altro) e non l’inizio di un nuovo Qe, magari sotto altre forme. Avendo però capito al volo di averla fatta fuori dal vaso, Powell ha subito rintuzzato, sottolineando come la sua frase non significasse che a questa taglio non ne seguiranno altri. Semplicemente, nulla è da darsi per scontato. Acqua fresca, il livello di credibilità era già sottozero. E Wall Street lo ha subito prezzato.



Quando poi il capo della Federal Reserve ha sottolineato, tutto tronfio, che l’organismo che guida non lascia mai che la politica influenzi le scelte in ambito monetario, è stato davvero il trionfo. E non per il fuoco di fila di tweets con cui Donald Trump lo sta bersagliando da un anno esatto per ottenere nuovo stimolo, ma perché quello dell’indipendenza della Fed è l’ennesimo falso mito che sta crollando, basti vedere come siano andate le cose nel weekend del 13 e 14 settembre 2008: chi ha deciso che Lehman Brothers dovesse fallire e, ad esempio, AIG no? La Fed o la Casa Bianca e il Tesoro? Non prendiamoci in giro, basta leggere L’era della turbolenza di Alan Greenspan, ex numero uno proprio della Banca centrale Usa, per averne conferma. Ma, come dicevo all’inizio, Donald Trump è andato oltre, ha combattuto la sua battaglia alla perfezione. E per averne una prima conferma, basta leggere con attenzione e per intero il suo indispettito tweet di mercoledì sera. Nel quale sì accusa Jerome Powell di lasciare l’America con in mano una pistola ad acqua contro i bazooka di Ue e Cina nella guerra commerciale, ma, attenzione, sottolinea a chiare lettere che comunque un risultato è stato ottenuto: fine del quantitaive tightnening, ovvero della normalizzazione del costo del denaro iniziata da Janet Yellen.



Insomma, Donald Trump ha fissato una red line che nessun membro del Fomc si azzarderà mai più a oltrepassare: anche soltanto mettere in conto l’idea di alzare i tassi nel medio termine. Di fatto, già un netto depotenziamento del concetto espresso da Jerome Powell in conferenza stampa, quando avvisava sulla natura da aggiustamento di medio ciclo della mossa al ribasso sui tassi. Come dire, “vuoi fare la guerra? Ok, falla, ma puoi solo rimanere fermo con i tassi, scendere è vietato”. Vietato per legge politica, perché ormai nell’opinione pubblica è passata l’idea che sia la Fed la dinamo ostruita che blocca la crescita del Paese. O il suo freno. Donald Trump e il suo staff, in questo, sono stati geniali. Roba da House of cards. Anche perché, se pensi che sia un aggiustamento da metà ciclo, questo presuppone una concezione di quest’ultimo che si espanda per almeno 10-12 anni.

Certo, il Qe globale ha ormai mandato a quel Paese ogni regola non scritta, in ossequio alla legge suprema del “calciare il barattolo” a colpi di stimolo, ma Jerome Powell non è stupido. Anzi. In cuor suo sa che qualcosa nella narrativa puzza dalla testa. E non da oggi. Perché se i dati macro ufficiali dell’economia Usa fossero reali, i tassi avrebbe dovuto alzarli. E li avrebbe alzati. Invece, li ha abbassati. Di poco, giusto per calciare egli stesso il barattolo per un po’ e vedere come reagiranno i mercati in agosto. Non esiste alcun aggiustamento di metà ciclo: o espandi o stai fermo o tagli. Un quarto di punto nel pieno del rally borsistico, con il Pil che pur rallentando nel secondo trimestre era al +2,1% e la disoccupazione ai minimi storici, non ha alcun senso economico. Lo capisce anche uno studente al primo anno. La Fed, però, sapeva di dover agire, di dover lanciare un osso al mercato. Anche se scarno e poco succulento, ma occorreva placare la tensione e fare in modo che la situazione prendesse una direzione. La quale, stante il montante di criticità legate alla catena di controparte globale sul collaterale, mutual funds in testa con la loro collezione di bond illiquidi in portafoglio, non potrà che essere quella di un Qe in tempi brevi. Per l’esattezza, in tempo per garantire una campagna elettorale in pieno stimolo monetario e con mercati che festeggeranno l’ennesima sbronza, salvo ritrovarsi dopo il novembre 2020 con una hangover da smaltire che potrebbe risultare fatale. Ma si sa, l’importante è vincere. Non importa come, la gestione dell’esistente è un problema che è sempre meglio affrontare in posizione di forza che di debolezza.

Jerome Powell con la sua conferenza stampa di mercoledì sera ha lastricato la strada al suo addio anticipato, uscendo però con l’onore delle armi e, soprattutto, con la nomea del martire in nome dell’indipendenza sacra e suprema della Fed? La cosa non mi stupirebbe. Farebbe comodo a tutti. A lui, in primis, perché si accrediterebbe per un futuro da uomo che ha combattuto il dispotismo trumpiano, in caso l’anno prossimo trionfassero i Democratici, magari con un esponente dell’ala sinistra come la Warren che raccolga comunque ampi consensi alle primarie. Ma anche a Trump, perché se le cose andassero meglio con un sostituto colomba che facesse partire uno stimolo monstre, lui porterebbe a casa un dividendo politico senza precedenti. E, in caso contrario, potrebbe comunque scaricare la colpa sui ritardi di Powell, troppo prolungati perché un cambio in corsa potesse risultare efficace. E avendo cominciato a bersagliare la Fed via Twitter nell’agosto del 2018, il Presidente può rivendicare il suo “occhio lungo” economico nell’aver colto in anticipo i sintomi dell’indebolimento economico globale. E, quindi, della necessità di stimolo anticipato. Infine, ne godrebbero i mercati. Perché, anche in questo caso, se gli epiloghi saranno rimozione o dimissioni, un nuovo governatore potrebbe far partire di nuovo la giostra della liquidità alluvionale a costo zero. Mentre se si proseguirà con la guerra di nervi fra Powell e Trump, sarà pronto all’uso l’alibi per scaricare ogni responsabilità dei tonfi sulla politica, sgombrando il campo dall’accusa di azzardo morale e porcherie su prodotti strutturati e uso della leva fatti finora.

Donald Trump, di fatto, ha messo la Fed con le spalle al muro. E, cosa più importante, ha ri-americanizzato il centro nevralgico del mondo, ha riportato a Washington la cabina di regia delle sorti globali, dopo che l’azzardo della guerra commerciale con la Cina aveva fornito a Pechino troppe carte da mettere sul tavolo della leadership del nuovo ordine mondiale che verrà. Ora, tutto è di nuovo in mano agli Usa. Non a caso, poco prima della pubblicazione del comunicato della Fed, da Shanghai giungeva la notizia che il nuovo round negoziale sul commercio era morto prima di nascere. Piaccia o meno, finora nella battaglia con la Fed, Donald Trump ha vinto. Anzi, stravinto. Come vada a finire la guerra, però, è tutta un’altra faccenda. Agosto e i suoi bassi volumi, ci diranno molto.