Spero che l’intera vicenda che ha visto protagonista il presidente Donald Trump sia stata una drammatizzazione a fini politici. E quando dico spero, fate attenzione: se così fosse, non ci sarebbe affatto da festeggiare, semplicemente perché dimostrerebbe come negli Stati Uniti la situazione economico-finanziaria sia tale da necessitare una simile e terminale raschiatura del barile. L’alternativa, però, ai miei occhi appare persino peggiore. Perché se davvero il presidente Usa ha patito un contagio da Covid così forte da portarlo alla necessità dell’assunzione di ossigeno e terapie simil-sperimentali in un ospedale militare, ciò che si desume è che se sei l’uomo più potente del mondo anche la peggior forma di virus contraibile si può sconfiggere tranquillamente in meno di 72 ore di ricovero. Tutti gli altri, si ammalino e muoiano pure in attesa del vaccino. O della sua chimera. D’altronde, abbiamo altri esempi di uomini di potere guariti in un batter d’occhio: Boris Johnson, ad esempio. O Jair Bolsonaro. Tutti negazionisti del virus, se ci fate caso.
E quale sarebbe il fine politico da perseguire, al netto delle stranezze sanitarie? In primis, focalizzare l’opinione pubblica in maniera addirittura parossistica e totalizzante sulla paura di turno e non sullo stato dell’economia. Secondo, proprio al fine di evitare che quest’ultimo vada del tutto fuori controllo, innescando tensioni sociali serie e reali, tagliare i tempi della discussione al Congresso rispetto al rinnovo del pacchetto di aiuti federali. Stranamente, sabato scorso Donald Trump ha lanciato solo due tweet dalla sua camera di ospedale: uno per rassicurare sul suo stato di salute e uno per ricordare come l’America abbia bisogno di nuovo stimolo, spronando Repubblicani e Democratici a lavorare speditamente insieme e trovare un accordo. Tu guarda a volte le coincidenze.
E non basta. Questa schermata mostra l’apertura dei futures nei trading mondiali nella notte fra domenica e lunedì: stranamente, dopo il giretto in automobile fuori dall’ospedale, Donald Trump ha postato un video in cui si mostrava in buona forma. Proprio 45 minuti prima dell’inizio delle contrattazioni asiatiche.
Funziona tutte le volte, il mercato pavloviano degli algoritmi è una garanzia. E, stranamente, tornato twittatore seriale a tempo record, ieri sempre Donald Trump a un’ora dall’apertura di Wall Street si lanciava in un altro dèjà vu, ricordando a tutti come il mercato sia ai massimi storici e che per questo è importante votare (per lui, ovviamente). Ma per quanto si possa mettere rossetto su un maiale, modo di dire anglosassone molto brutale ma efficace, quest’ultimo resta comunque un suino. Non diventerà mai Claudia Schiffer. Ed eccoci, quindi, al nodo di medio-lungo termine della situazione che sta sviluppandosi con epicentro negli Usa, ma che, stante le ultime mosse della Bce, a breve si irradierà con massimo impatto anche in Europa. Guardate questo grafico, il quale ci mostra il grafico più importante contenuto nel report Cofer (Currency Composition of Official Foreign Exchange Reserves) del Fmi relativo al secondo trimestre di quest’anno e appena pubblicato.
E cosa ne si evince? In soldoni che se stampi moneta come un pazzo per finanziare un deficit insostenibile e acquistare qualsiasi asset senza valore giaccia nei bilanci o nei portfolios di banche e fondi, quella stessa valuta tenderà a essere percepita sempre più per quello che in realtà è: carta da parati. Basta guardare la dinamica occorsa al dollaro fra il primo e il secondo trimestre di quest’anno: dopo un aumento delle riserve mondiali denominate in biglietti verdi nei primi tre mesi dell’anno, frutto della corsa verso beni rifugio da pandemia asiatico-europea ed effetto valutativo, il trend da aprile a giugno ha subito un drastico cambio di rotta. E quest’altro grafico mostra come la dinamica in atto sia ben lungi dall’essere un qualcosa classificabile unicamente come effetto one-off da Covid: il tema della de-dollarizzazione del sistema appare infatti non solo intatto ma anche in splendida forma.
Utilizzando come criterio valutativo le detenzioni denominate in dollari di valuta, titoli azionari e obbligazioni, il ruolo benchmark del biglietto verde ha infatti registrato un calo che lo ha portato al 61,3% del totale. Insomma, nonostante il mercato in rally dai minimi di marzo, sostanzialmente incentrato su Wall Street e quindi su assets denominati in moneta statunitense, qualcosa pare si sia rotto nel feeling fra dollaro e riserve delle Banche centrali. E questo ultimo grafico, oltre a offrire una lettura prospettica differente di questo trend, lo compara con il contemporaneo status dell’euro a livello mondiale: questo nonostante l’Europa sia reduce da un lockdown molto più duro e lungo di quello vissuto dagli Usa e, come piace tanto ricordare agli adoratori del deficit, non possa contare su una Banca centrale prestatore di ultima istanza come la Fed.
Cosa dite, il mercato non sta forse già operando su un doppio binario? Ovvero, esiste una realtà ufficiale che vede Wall Street sfondare un record al giorno e le statistiche sul tasso di disoccupazione muoversi con trend zigzagante in perfetto stile cinese. Ed esiste poi una realtà ufficiosa che sa benissimo come l’inganno da Qe perenne in atto possa in realtà solo millantare la sua natura permanente e sistemica: prima o poi, qualcosa romperà il giocattolo. E quel trend del dollaro nell’arco di un trimestre parla chiaro. Pensate che il mercato, inteso come entità reale di chi opera su scenari un po’ più ampi e complicati del trading su Robinhood dei titoli Hertz non abbia già prezzato il devastante effetto collaterale che la manovra di welfare monstre messa in campo da Fsx e Tesoro statunitense in aprile potrà avere sulla stabilità stessa degli Stati Uniti negli anni a venire? Credete davvero che tutti siano persuasi della sostenibilità di livelli valutativi come quelli attuali, ad esempio per il Nasdaq? Vi pare un caso che ormai da anni, casualmente proprio da dopo il Big Bang, la grande sveglia collettiva suonata con il crollo Lehman, le Banche centrali cinese, russa, indiana e turca abbiano cominciato a diversificare le proprie riserve, scaricando dollari e Treasuries e comprando oro fisico con il badile?
E qui, fermi tutti, occorre mettere un punto fermo: la de-dollarizzazione del sistema non è evento che si possa compiere nell’arco di mesi o trimestri. Servono anni e anni. Parecchi lustri. Quindi, occorre partire dal presupposto che fin quando gli scambi di commodities o il trading di futures e derivati avverranno con denominazione in dollari, Washington potrà contare su una poderosa assicurazione sulla vita. Ma quanti scambi bilaterali stanno già avvenendo, in chiave dichiaratamente geopolitica, in valute nazionali o tramite il benchmark parallelo dell’euro, essendo la nostra disgraziata Unione comunque il principale attore commerciale del mondo, il mercato più ricco? Si bypassa il dollaro per inviare un segnale alla Casa Bianca, certo. Ma anche la fine del petrodollaro veniva ritenuta una chimera, soltanto cinque anni fa: e ora? Chiedete ai sauditi e al loro deficit cosa ne pensano, ad esempio: pensate che avrebbero spinto sull’Ipo di Aramco in quelle condizioni di mercato, oltretutto esercitando subito anche l’opzione di green shoe, se non fossero stati disperati, nonostante i loro pozzi e i loro barili?
Il mondo cambia, sta già cambiando più velocemente di quanto non ci appaia. Anche perché, giova sottolinearlo, fino a quando la nostra attenzione verrà distolta dalla Luna per mostrarci il dito dell’emergenza di turno, tutto appare più complicato. O più semplice, per chi sta al timone. Il dollaro è finito, quindi? No, solo uno stupido potrebbe pensarlo. Ma nulla, già oggi, appare come era soltanto dieci anni fa.
Ora, per finire, una domanda: di fronte a un trend come quello riportato dalle statistiche del Fmi, come valutare l’atteggiamento di Christine Lagarde di fronte alle dinamiche del cambio euro/dollaro? A pensar male…