In attesa del fiorire di lisergiche operazioni aritmetiche che scontassero ai 3 miliardi di potenziale incasso derivante dalla tassa sugli extra-profitti bancari, i 9,5 miliardi di capitalizzazione che il settore aveva bruciato martedì a Piazza Affari, l’unica certezza che albergava nella mia testa era che il Governo avesse compiuto un errore clamoroso. E non per il tonfo in Borsa. E nemmeno l’uno-due di ripensamento che in poche ore ha visto il ministro Urso cedere, dopo a quelle dei tassisti, anche alle pressioni delle linee aeree, di fatto smantellando il cosiddetto Decreto Asset. Bensì per la percezione di panico che questa clamorosa dimostrazione di incompetenza potrebbe aver instillato nel mercato. Quello vero. E la tardiva difesa peronista posta in essere dalla presidente del Consiglio conferma paradossalmente il rischio.
Già smentire il proprio ministro delle Finanze e infilare un 40% di windfall tax bancaria come coniglio dal cilindro di tarda sera non depone a favore della natura meditata del provvedimento. Ma affrettarsi a rimodularne i termini e, addirittura, vedere una componente dello stesso Governo – Forza Italia – già auspicare emendamenti nel cammino parlamentare, svela davvero pressappochismo. Peccato che l’argomento non lo consenta. Non si gioca a beach volley con un panetto di esplosivo al plastico. A meno di non voler saltare in aria. Il crollo di Piazza Affari è un sintomo. Ma come diceva il protagonista di Harry ti presento Sally, quel sintomo si sta portando a letto mia moglie. Ecco quindi che dal fronte superbonus, quasi in contemporanea con il pasticciaccio brutto del Decreto Omnibus, arrivano un paio di notizie decisamente interessanti. Non a caso, totalmente ignorate dai media. E ben nascoste dalle prime pagine.
Primo, su un totale di circa 84,5 miliardi di investimenti, 83 sono stati ammessi a detrazione. Praticamente, occorreva davvero impegnarsi per riuscire a farsi bocciare i lavori. Forse, soltanto presentando il progetto di trasformazione di una diga in soppalco mansardato. Forse. Seconda notizia, le Poste hanno riaperto alla cessione dei crediti di imposta per altri 3 mesi. Dal prossimo 1 ottobre, nuovo sblocco. Ma riservato esclusivamente alle persone fisiche e limitato alle cosiddette prime cessioni per un ammontare massimo di 50mila euro. Si raschia il fondo.
Cosa c’entra la tassa sugli extra-profitti con le metastasi del superbonus in diffusione? Semplice, il Governo è nel panico. E ora si spiega quello stravolgimento del piano relativo al Pnrr e l’inserimento a forza di progetti relativi all’efficientamento, tali da garantire a palazzo Chigi l’impegno da parte di Bruxelles – in 24 ore – dello sblocco dei 35 miliardi di terza e quarta rata entro il 31 dicembre. In compenso, gli Enti locali si sono trovati senza copertura. E con i loro cantieri a loro volta a rischio di chiusura. Siamo alla logica della coperta troppo corta. Qualcuno è destinato a prendere freddo. Ma con un Pil già in contrazione nel secondo trimestre, occorre fare bene i conti. E la crescita sventolata nei primi tre mesi del 2023 si basava solo su due voci: edilizia e turismo. Quest’ultimo, stando a Federturismo, sta patendo un -30%. Il primo rischiava l’intoppo totale dopo lo stop del Mef. Il quale parlava di salasso da 60 miliardi per i conti pubblici. Oggi siamo a quota 83 miliardi di progetti che godono di detrazione e si riapre ulteriormente. Quella tassa sulle banche non è stata l’azzardata mossa da Robin Hood con vista sulle Europee che pareva. Era la disperata cucitura di una toppa peggiore del buco.
Occhio all’October surprise. Perché mercoledì è accaduto dell’altro. E direttamente riconducibile al rischio di un autunno caldissimo. E non per le temperature. La buona notizia è che il rialzo finale di giornata ad Amsterdam si è fermato a +28%. Quella meno buona è che intraday ha toccato +40%. Quella pessima è la ragione: percezione di crisi. Solo percezione, per ora. Ma sufficiente a far imbizzarrire il branco, come mostra il grafico. E con ogni probabilità, far ingolosire chi quelle dinamiche le guarda da fuori. E con interesse geopolitico. Non certo di speculazione sui futures.
È bastato che Bloomberg confermasse il voto favorevole allo sciopero dei lavoratori di Chevron Corp. e Woodside Energy Group Ltd. nelle due facilities del gas in Australia per spostare immediatamente gli equilibri dei compratori asiatici verso l’alternativa Lng. Ma a esplodere è stato il Dutch europeo. E non solo perché in contemporanea dalla Norvegia arrivavano allarmanti notizie sui ritardi in atto nei lavori di manutenzione degli impianti. Bensì perché l’Europa è in cerca di venditori. Affidabili. Fuorigioco la Russia per le note ragioni, ora tutto si basa sulle alternative. Ovvero, Lng statunitense. Oppure Nord Africa.
E in tal senso, attenzione al silenzio calato sulla questione del golpe in Niger. L’ultimatum dei Paesi dell’Ecowas è scaduto domenica, ma l’unica decisione presa è stata una nuova riunione convocata per la giornata di ieri ad Abuja. L’Europa tace. Mentre gli Usa hanno messo da parte gli istinti schizzinosi e hanno già inviato a parlare con i golpisti la vice-segretaria di Stato, Victoria Nuland. D’altronde, dopo l’addio senza tanti complimenti e la facciata del congelamento dei beni via Fmi, Washington non ha di certo chiuso i rapporti con i talebani tornati al potere a Kabul. Figuriamoci quando si tratta di un Paese strategico per la lotta al terrorismo nel Sahel e le risorse del sottosuolo, uranio in testa. L’Europa abbaia. Nel frattempo, tutto intorno gli equilibri mutano.
Ma si sa, ora bisogna pensare alle vacanze. Al riposo. Parlamenti chiusi, Bce in pausa. Ad Amsterdam, invece, c’è vita. E reazioni pavloviane che qualcuno con memoria lunga sulla crisi dello scorso inverno interpreta così: La crisi energetica non è affatto finita. Anche se è diminuita la possibilità di una ripetizione con magnitudo pari a quella dello scorso anno. Parole e musica del CeO della tedesca EON, Leonhard Birnbaum, intervistato sempre mercoledì da Bloomberg TV. Ma la Germania ha messo in campo circa 200 miliardi di pacchetto emergenziale lo scorso anno. E nazionalizzato le utilities. E chiuso accordi di fornitura per 25 anni con il Qatar. Noi, di fatto, basiamo tutta la nostra indipendenza da Mosca su un accordo con l’Algeria. Che non vuole interventi in Niger. E la cui utility energetica pubblica è una dependance di Gazprom. E che alla luce del primo scossone potrebbe essere tentata di pompare le proprie entrate fiscali, rivedendo il tariffario dei prezzi. Perché si sa, al netto dei contratti già firmati, gli impianti possono subire guasti. O incidenti.
Mentre qui rincorriamo onanistiche ma molto social classifiche sul caldo, qualcuno già prepara le mosse in vista del generale inverno? L’ultimo attacco con i droni della Russia ha colpito un deposito di stoccaggio di petrolio. E il greggio è ai massimi da nove mesi. Unite i puntini. E fate legna.
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