L’inflazione non è più un fenomeno macro-economico, è una politica fiscale. Un metodo di governo dell’esistente e dell’insostenibile. In un mondo di Qe perenne, nessuno può davvero pensare che la massa monetaria operi in base a sane fluttuazioni cicliche di espansione e restrizione. Non a caso, le recessioni sono più brevi. Ma frequenti. Così come le crisi appaiono strutturali, in grado di amplificarsi a interi settori e comparti globali, pur promanando da un singolo soggetto vittima di margin call, outflows o redemptions.



Gioie e dolori di un mondo finanziarizzato e interconnesso. Perché senza Qe, il sistema basato su debito e leverage semplicemente crolla su se stesso. Ma il Qe, al netto delle destabilizzazioni che lo rendono necessario – garantendo di volta in volta paure e alibi, debitamente amplificate da politica e media asserviti – e delle loro conseguenze politiche e sociali, ormai va a inserirsi in un contesto di bilanci delle Banche centrali fuori controllo. Mai più esisterà un post-Lehman ordinato che possa incorporare in multipli artificiali tutta quella liquidità, tramutandola in mero doping per equities. Paradossalmente, regalando rallies che generano soldi sui soldi, speculazione come unico riferimento e obiettivo. Soprattutto, unico mezzo. No, ora esonda strutturalmente nell’economia reale. In automatico. E quindi gonfia a dismisura i prezzi.



Di fatto, l’inflazione al 2% non è più sostenibile. Perché il Qe perenne richiede un target almeno doppio. Il 4-5% sarà il new normal. Nemmeno più tanto segretamente, la Fed sta già discutendone. E anche il 2% flessibile inserito in fretta e furia nella revisione della guidance Bce imposta da Christine Lagarde nel luglio di 2 anni fa, ora trova una sua spiegazione. Poco incoraggiante. E molto inquietante, per chi ancora pensi che l’ex numero uno del Fmi sia nulla più che un’incompetente seriale e un’elegantissima gaffeur.

Ora guardate il grafico: tutti i nuovi posti di lavoro generati negli Usa dalla crisi Covid in poi sono stati appannaggio di stranieri. Nel febbraio 2019 erano 27,8 milioni, nell’aprile di quest’anno erano 30 milioni. I lavoratori americani, invece, ancora non hanno recuperato il livello pre-pandemia (131,7 milioni in ottobre 2019 contro gli attuali 131,1).



Ora invece guardate questo altro grafico: sempre negli Usa, l’inflazione ha appena eroso il potere d’acquisto dei salari per il 26° mese di fila. Oltre due anni.

Cosa ci dice questo? Semplice, per quanto estremamente scomodo. Che esiste davvero l’esercito industriale di riserva, definizione marxiana ex ante di ciò che sarà il pilastro del nuovo mondo Qe-backed, il paradiso terrestre del denaro senza ancoraggio ai fondamentali. I lavoratori stranieri, infatti, non hanno goduto (o lo hanno fatto solo in minima parte) del diluvio di sostegni federali piovuti sui conti correnti durante la pandemia: quindi, hanno ulteriormente abbassato l’asticella salariale, generando un ufficioso livello di contrattazione parallela. Con cui poi, terminata l’emergenza, tutti i lavoratori hanno dovuto fare i conti.

Il mondo del Qe perenne, dell’indebitamento statale e del leverage finanziario ha trovato la sua scappatoia strutturale: associare alla purga sempre più ciclica e frequente, periodi più o meno brevi di helicopter money che mantengano tranquilla la massa salariata, abbindolandola attraverso sostegni e sussidi che le garantiscano sopravvivenze artificiali e minimizzino gli impatti di realtà rispetto al futuro. Lo spoiler non deve essere metabolizzato, deve rimanere il trailer di un film. Un brutto sogno da cui c’è la certezza che ci si sveglierà. Salvo poi vedere quei medesimi soggetti regolatori rimettere ampiamente a proprio favore le dinamiche con compressioni del reddito sempre più marcate e strutturali. E con un esercito industriale di riserva sempre più ampio, cui vendere la tripla illusione composta da lavoro sottopagato, credito al consumo e indebitamento cronico. Spacciandola per crescita economica e piena occupazione del sistema.

Ecco come nascono certi Pil, talmente falsi da far impallidire i soldi del Monopoli. E, non a caso, sempre colti con la guardia abbassata dalla crisi o dalla recessione di turno, negate fino all’ultimo. Perché il termometro è la Borsa. E non il salario. O il Capex. Questo è il nuovo mondo. E necessita di un’inflazione alta per rendere sostenibile, almeno nel breve termine, il debito mostruoso su cui si fonda. Tutto qui. Talmente semplice, reale e senza via d’uscita da dover essere occultato. Dall’Isis o dal Covid o dal fascismo di turno, poco importa.

Oggi poi, per chi dovrebbe disarticolare queste dinamiche o quantomeno svelarle e contrastarle, l’unico diritto da difendere è quello gender. Per chi scrive le regole e impone ricatti, una pacchia. Insperata.

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