Ha fatto sensazione sui media il dato relativo agli oltre 60.000 licenziamenti a livello globale nel settore bancario, il peggior dato settoriale dalla crisi finanziaria del 2008. Nell’anno dei mega-profitti da tassi alle stelle.

L’Italia in tal senso è andata in controtendenza, stante un rinnovo contrattuale che, oltre a una diminuzione dell’orario di lavoro, ha ampiamente recuperato l’inflazione. Quella turca, oltretutto. Meglio per loro, Significa che hanno sindacalisti che sanno fare il loro lavoro. O meglio, far pesare la rendita di posizione. Perché più che un adeguamento, quello italiano è stato un premio di produzione. Del Mef. E visto cosa ci attende a livello di emissioni, un incentivo ex ante



Detto questo, c’è un altro dettaglio relativo al settore bancario che pare però sfuggito alla stampa. Ce lo mostra plasticamente il grafico: l’arbitraggio con cui le banche Usa stanno ulteriormente facendo soldi a spese dei contribuenti.

Perché alla base di tutto c’è il mitico Btfp, il veicolo di finanziamento bancario messo in campo dalla Fed lo scorso marzo come risposta alla crisi delle banche regionali. Il quale, formalmente. terminerà l’11 marzo prossimo. Formalmente, appunto. Perché il giochino è di quelli fantastici. E, soprattutto, rispondente alla logica fondamentale nei momenti di crisi: out of sight, out of mind. In quale bar, infatti, si discute del fatto che la scorsa settimana quella facility abbia visto aumentare ancora il suo controvalore di utilizzo a 131 miliardi di dollari? Solo per permettere a quelle banche di sopravvivere. Nel frattempo, le stesse stanno monetizzando un arbitraggio di 56 punti base fra il Btfp e lo Iorb, il tasso applicato dalla Fed sulle riserve. Free money.



Capito perché la Borsa ha festeggiato il pivot di Jerome Powell e il conseguente calo dei rendimenti come un cane di Pavlov sotto anfetamine? Il contribuente paga, la banca incassa. Il Sistema respira. Da un lato, mantiene l’opinione pubblica all’oscuro di quanto realmente sta accadendo sotto il pelo dell’acqua del mercato. Dall’altro, come mostra questo altro grafico, offre un sostegno all’economia attraverso l’istituzionalizzazione dei consumi da last hurrah come voce del Pil. Più il sentiment è incerto, più gli americani spendono. Chiaramente, indebitandosi. Su carta o con finanziamento, poco cambia. Le banche guadagnano anche da lì.



E se le delinquencies crescono troppo, si cartolarizza. Tanto fra poco parte il nuovo Qe e il plateau degli assets che Mamma Fed acquisterà sarà più ampio del menù turistico di un ristorante sotto la Torre di Pisa.

Capito perché alla stampa piace tanto titolare sui licenziamenti di massa dei bancari? Perché assolve in pieno al compito base che il Sistema la ha affidato, ovviamente ben remunerato. Ovvero, intorbidire le acque. Provare a raccontare la verità, invece, non è affatto remunerato. E, anzi, crea nemici.

E adesso, vi prego, ripetetemi che le Banche centrali ricoprono un ruolo solo marginale nelle dinamiche di mercato e dell’economia. E che i rally sono frutto di dinamiche macro sottostanti. Date un’occhiata a quest’altro grafico.

Per la prima volta dallo scorso maggio, magicamente gli asset managers hanno cambiato opinione sullo yen. Dopo aver ammassato la posizione short più grande dal post-Covid, change of mind. Non fosse che certi timing parlano da soli. Persino quando tacciono. E nulla e nessuno può smentire il fatto che questo cambio di strategia abbia avuto come punto di svolta l’ultima riunione della Bank of Japan. A sua volta, farsesco colpo di teatro dopo la strage di hedge funds ribassisti orchestrata attraverso il falso rumors di un rialzo dei tassi imminente. In un ambiente di inflazione alta ma anche di dinamiche salariali a picco e Pil in profondo rosso, dopo una seconda e provvidenziale revisione. Primo colpo, strike one. Chi scommetteva contro lo yen, è rimasto con le dita incenerite. Secondo colpo, strike two. La riunione della Bank of Japan si è tenuta per la prima volta in presenza del ministro delle Finanze, di fatto emissario del Governo a controllare che nessuno desse seguito alle false promesse. E infatti, tutto come prima. Tassi negativi. Politica di controllo sulla curva dei rendimenti. Acquisti onnivori di bond su tutte le scadenze, annunciati a mercati aperti e off-schedule. Non a caso, lo yield del decennale è letteralmente precipitato. E poi, la frase finale: nessun elemento attuale rende necessario un aumento dei tassi. Una farsa, appunto. Una recita a soggetto. Sufficiente a tramutare in bluff una strategia di investimento che pareva una sentenza. Terzo colpo, strike three. Out.

Si sa, il mercato è libero. E si auto-regola. Lo mostra bene quest’ultimo grafico.

Dal taper tantrum innescato da Ben Bernanke nel 2013 con il suo rialzo dei tassi e il conseguente tsunami debitorio nei mercati emergenti, le Banche centrali sono intervenute a ogni minima correzione. A ogni Css. Critical Stress Signal. I cerchietti rossi. Generando un riflesso pavloviano: ogni calo è un’opportunità, perché il sistema finanziario non può collassare. E quindi il buy the dip rappresenta il ciclico sostegno auto-alimentante. Come i buybacks. Come l’espansione dei multipli. Ogni crisi è generatrice di un alpha. Condizionamento, appunto. La proverbiale carota. A cui, ogni tanto, occorre accoppiare il bastone utilizzato dalla Bank of Japan con gli hedge funds. Perché i blitz per vedere i bluff, al tavolo del Qe perenne non sono permessi. Se non concordati.

Ecco il mondo in cui viviamo. Un mondo che – non a caso – può tranquillamente gestire due, tre crisi geopolitiche contemporanee. Anzi, le brama. Perché il caos genera alibi. Un mondo in cui nulla è in realtà come appare. Un mondo che, soprattutto, sta pericolosamente sdoganando la falsa promessa del pasto gratis garantito.

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