Strano Paese. Che scherza col fuoco. A forza di cercare intromissioni russe nella politica di casa nostra, tendiamo a non accorgerci di cosa stia accadendo. E di cosa è accaduto. Puntuale come morte e tasse, quando comincia il conto alla rovescia verso il Natale, arrivano le anticipazioni del libro di Bruno Vespa. Ed ecco che scopriamo dalla viva voce di Carlo Calenda che +Europa, il partito monocellulare di Emma Bonino, avrebbe ricevuto 1,5 milioni di finanziamenti da George Soros con il chiaro mandato di non rompere con il Pd. Tradotto dal calendese, se vi ritrovate Giorgia Meloni a palazzo Chigi è colpa di George Soros che ha costretto il mitologico Terzo polo all’inversione a U a tempo di record, frammentando il fronte opposto a quello del centrodestra. Sinceramente, i destini politici di Carlo Calenda ed Emma Bonino appaiono materia da feticisti. Quindi, lasciamoli a quel contesto. Più interessante è la conferma – giunta sotto forma di intervista di Benedetto Della Vedova a Repubblica – dei finanziamenti diretti di George Soros a +Europa.
Tutto legittimo, per carità. E sicuramente rendicontato. Però si apre uno scenario. Che ribalta l’allarmismo maccartista nei confronti della Russia che avrebbe finanziato e sostenuto forze politiche contigue alle proprie posizioni e interessi. E invece conferma plasticamente il finanziamento diretto di un partito italiano, ancorché residuale, da parte di un uomo il cui profilo di mestatore nel torbido è noto fin dal 1992, quando decise di schiantare lira e sterlina. Solo per questo, chi ne accetta i finanziamenti si qualifica in maniera chiara.
Certo, la vulgata vorrebbe George Soros tramutato in filantropo e benefattore della causa globale dei diritti civili. Ovvero, la giustificazione social e politically correct delle destabilizzazioni del Dipartimento di Stato. Primavere arabe in testa. E visto l’esito di quanto accaduto in Libia e le conseguenze che l’Italia ne ha pagato, in primis dal punto di vista di una primazia energetica e geopolitica passata forzatamente sotto controllo francese e turco, appare difficile conciliare le agende parallele di George Soros con gli interessi nazionali italiani. I quali dovrebbero essere – Costituzione alla mano – dirimenti nelle scelte dei partiti. Anche di +Europa. La cui residualità, paradossalmente, non conta e non sposta una virgola. Conta infatti il principio.
Direte voi, George Soros è portatore di valori occidentali, è palesemente in grado di superare l’esame del sangue dell’atlantismo. Appunto. Quanto, realmente, gli interessi Usa collimano oggi con quelli europei e italiani in testa? Ciò che si muove dietro le quinte di questa immensa pantomima politica lo conferma. Dove realmente i playbooks si svelano per ciò che sono, appare ad esempio questo. Quello che vedete è il reportage-video dedicato dal Wall Street Journal al loophole che la Russia sfrutta per aggirare le sanzioni statunitense sul suo petrolio.
Cosa sia un loophole è presto detto: una scorciatoia. E quest’ultima si trova geograficamente in Italia, per l’esattezza in Sicilia. La raffineria Lukoil di Priolo, infatti, è divenuta protagonista assoluta di questo atto d’accusa del quotidiano finanziario Usa. Il quale, per documentare il viaggio del greggio russo verso il Mediterraneo, la sua trasformazione, il suo labelling in prodotto italiano e infine il suo invio ripulito verso gli Usa sotto forma di carburante (ovvero, ciò di cui vi ho parlato la scorsa settimana, dopo la denuncia in tal senso del Financial Times), non ha lesinato sui mezzi messi in campo. C’è tutto. Cartine, riprese aeree, certificazioni e documenti spiattellati in bella mostra. Un armamentario da reportage di primo livello. O da chiaro segnale politico al Governo appena insediato. Traduzione del messaggio: vi teniamo in pugno. Quindi, attenzione a come vi muovete. E non tanto in patria, bensì nei contesti che contano. Nato e Ue.
Quest’ultima soprattutto, stante l’ormai chiaro e graduale abbandono Usa del giocattolino geopolitico ucraino, alla luce dello strano tempismo – a una settimana dal midterm – dell’indiscrezione della NBC sulla litigata telefonica fra Joe Biden e Volodymir Zelensky, definito addirittura ingrato per le sue continue richieste. E cosa starebbe così a cuore a Washington da necessitare un cavallo di Troia di prima linea come l’Italia al suo totale e completo servizio? Rafforzare le restrizioni bilaterali dell’export di microchip verso la Cina, nel solco del regime sanzionatorio posto in essere nei confronti della Russia.
Il 7 ottobre scorso, il Bureau of Industry and Security (BIS) del Department of Commerce statunitense ha infatti svelato una serie di nuove restrizioni allo studio rispetto alle esportazioni di componentistica ritenuta strategica per la sicurezza nazionale, fra cui i cosiddetti high-end chips e gli equipaggiamenti necessari alla loro produzione. E gli europei hanno già potuto apprezzare l’efficacia della moral suasion statunitense nella materia, quando a inizio 2020 l’Olanda cedette alle pressioni del Dipartimento di Stato e bloccò le esportazioni in Cina di attrezzature per la litografia ultravioletta estrema (EUV), necessaria proprio per la produzione dei sofisticati high-end chips e di quelli di grandezza inferiore ai 22 nanometri. Ora Washington punta al bersaglio grosso. Ovvero, bloccare la fornitura da parte dell’olandese e leader del settore ASML Holding di equipaggiamento DUV verso la Cina, quello a più alta apertura numerica e risoluzione. Se gli Usa dovessero ottenere il loro scopo, la Cina diverrebbe incapace di produrre la gran parte dei semi-conduttori più diffusi sul mercato globale. Di fatto, un atto di guerra. Commerciale ma non solo.
Di più, nonostante fonti citate sotto anonimato da Bloomberg abbiano riferito come, al momento, l’Ue non paia intenzionata a valutare l’adozione di un regime di bando sull’export ampio come quello implementato contro la Russia, solo tre giorni fa la rappresentante Usa per il Commercio, Katherine Tai, avrebbe partecipato a un meeting informale con funzionari statunitensi ed europei di alto livello a Praga. Il tutto in vista del terzo meeting del Trade and Technology Council previsto per il 5 dicembre, data entro la quale Washington vorrebbe incassare il sì definitivo di Bruxelles.
Il terrore statunitense? Che la svolta filo-cinese della Germania, destinata a crescere enormemente dopo la visita di Olaf Scholz a Pechino, contagi il resto di un’Europa che, a partire dai continui attacchi francesi – l’ultimo contro la politica di sussidi Buy american voluta da Joe Biden, alla faccia del protezionismo di Trump -, comincia a essere stanca ed economicamente vittima del double standard degli Usa. Alla luce di uno scontro epocale e strategico di questa portata, come valutare il profilo ultra-atlantista a cui è improntato il Governo Meloni? Una cosa appare certa: le nomine di personalità di provata avversione verso la Cina come Adolfo Urso e Guido Crosetto a due dicasteri chiavi in materia come Sviluppo economico e Difesa parlano chiaro.
Insomma, palazzo Chigi sembra aver optato – senza renderne conto al Parlamento e al Paese – per la stipula di una polizza d’assicurazione sulla propria vita politica con la solidissima compagnia d’Oltreoceano chiamata Stati Uniti. Quindi, garanzia di ruolo preminente nelle dinamiche Nato (anche e soprattutto a livello di appalti sul warfare) e una finanza Usa al proprio fianco, in caso di bizzarrie dello spread. O della stessa Bce. Scelta legittima. Ma pericolosissima. Perché in caso di asse Germania-Francia-Olanda a tutela del commercio europeo, chiamarsi fuori equivale non solo a isolamento, ma – soprattutto – all’ufficializzazione di rapporti al minimo storico con due nani come Cina e Russia. A meno che Giorgia Meloni non punti a trasformare l’Italia nel 52° Stato degli Usa.
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