Da oggi, la Nuova Zelanda è in lockdown nazionale. A seguito di un singolo caso di contagio. La tempesta sanitaria d’autunno comincia a muovere i suoi passi con netto anticipo. In Italia, passato il Ferragosto implicitamente e ridicolmente ritenuto intoccabile persino dal Governo, ora il passaggio di almeno tre Regioni da zona bianca a gialla (Sicilia, Sardegna e Toscana) appare meno improbabile.
Ma è dalla Germania che arriva il segnale più forte. Il 13 agosto, il ministro della Sanità, il contestatissimo Jens Spahn, ha scoperchiato il vaso di Pandora in un’intervista alla Bild: «Potremmo dover mantenere le restrizioni fino alla prossima primavera a causa della variante Delta». Nessuna conferma al riguardo. Ma nemmeno smentita. Neppure dal Koch Institute.
L’incubo sta per ricominciare? Apparentemente, sì. O, forse, sarebbe meglio guardare la realtà in faccia e dire che non è mai finito: abbiamo soltanto deciso, esattamente come nel 2020, una pausa estiva che pagheremo a prezzo pieno, quando le prime foglie cadranno e si passerà dai bermuda alle felpe. Tutto messo in conto. Anche a livello economico. Perché la giornata di lunedì, declinata a livello globale come grande e assortito mea culpa per quanto accaduto in Afghanistan, ha portato con sé alcune certezze.
La prima è arrivata dalla Cina ed è sintetizzabile in tre numeri, relativi ad altrettante rilevazioni macro per il mese di luglio. Vendite al dettaglio +8,5% contro le attese di +10,9%, investimenti fissi nel primo semestre +10,3% contro attese di +11,3% e produzione industriale +6,4% contro consensus del +7,9%. Tradotto, la Cina sta rallentando. E nettamente. La ragione? Ce la mostra questo grafico: l’attuale picco di contagi da variante Delta rappresenta il peggiore e più serio dallo scorso gennaio. E le conseguenze si stanno facendo sentire, in ossequio al motto del battito d’ali di farfalla a Est che si tramuta in tsunami. Il più grande porto marittimo del mondo per tonnellaggio merci (e il terzo in termini di traffico di container) la scorsa settimana ha chiuso uno dei suoi principali terminal a seguito di un caso di Covid-19. E ora il timore è che quanto accaduto all’hub cinese di Ningbo-Zhoushan possa assestare il colpo mortale alla supply chain globale e – di conseguenza – alla dinamica dei prezzi, stante la conferma arrivata ieri di operatività ancora bloccata rispetto alle attività di inbound e outbound dei container.
Con le compagnie che diramano avvisi di ritardi e re-indirizzano le rotte, infatti, l’accaduto va a inserirsi in un contesto già esplosivo: a luglio, il PPI – i prezzi alla produzione – sia cinese che statunitense ha toccato livelli da record assoluto. Tradotto, quei prezzi alla produzione stanno distruggendo i margini delle aziende. E gli aumenti presto saranno giocoforza trasferiti lungo la filiera. Questo grafico mostra la situazione di congestione al porto di Los Angeles/Long Beach, il principale Usa per il traffico commerciale: i colli di bottiglia creati da navi ancorate e in attesa di scarico sono già tornati al livello critico dello scorso novembre. E il fall-out in arrivo da Ningbo-Zhoushan non si è ancora palesato, essendo i primi tempi di ritardo calcolati su 3-4 giorni dalla scoperta del caso di Covid di giovedì scorso: potenziale paralisi totale, quindi.
E se l’Australia ha ulteriormente intensificato controlli e restrizioni su tutto il territorio nazionale e chiuso le frontiere fino a fine anno nel tentativo di bloccare il dilagare della variante Delta in arrivo dal Far East, venerdì scorso il portavoce della Chinese National Health Commission, Mi Feng, è stato chiaro: «A oggi, i casi diagnosticati a livello locale sono in crescita per il 19mo giorno di fila e coinvolgono 16 province del Paese». E questo grafico mostra come la reazione della Pboc sia stata immediata: dovendo far fronte a circa 700 miliardi di yuan (108 miliardi di dollari) di prestiti a 1 anno che andavano a scadenza il 16 agosto, la Banca centrale del Dragone ha iniettato più liquidità del previsto nel sistema, al fine di evitare un’ondata di default su obbligazioni interne.
E non basta: da più parti si ritiene pressoché certo un nuovo taglio dei requisiti di riserva bancari già entro la fine dell’anno, probabilmente più drastico di quello di 50 punti base dello scorso luglio. Qualcuno Oltreoceano, forse più in modalità di speranza auto-alimentante che basandosi su fatti reali, parla chiaramente di un possibile taglio dei tassi tout court da parte della Pboc. Il tutto, mentre negli Usa ancora si millanta ipocritamente la possibilità di un taper degli acquisti obbligazionari che parta già questo autunno e si concluda attorno a giugno 2022, basando il cronoprogramma su una politica di dimagrimento mensile di 20 miliardi per i Treasuries e 10 miliardi per gli Mbs. Impossibile. A meno di non voler dar vita alla famosa nuova Lehman di cui vi parlavo lo scorsa settimana.
Ipocrisia allo stato puro. Sintetizzabile a meraviglia da questo ultimo grafico, il quale mostra al meglio la situazione: compara l’ultimo dato relativo alla fiducia dei consumatori statunitensi tracciati dall’Università del Michigan (UMich) e pubblicato venerdì scorso con il rally dello Standard&Poor’s 500: ancora qualche dubbio su quale sia l’unico, reale beneficiario del Qe perenne e permanente? E del perché dovremo convivere con l’emergenza strutturale dell’endemia, tanto che – a tempo di record – Pfizer ha già presentato alla Fda statunitense gli studi preliminari del suo boost di vaccino, il famoso richiamo che potrebbe diventare fisso a livello annuale?
Davvero credete ancora alla favola bella del Pil italiano che promette miracoli da Dopoguerra e all’effetto leva dei fondi europei, dopo l’esborso dei primi (e unici, meglio che lo sappiate fin da ora) 25 miliardi del Recovery Plan? Rileggete le parole di cautela quasi gelida di Carlo Bonomi a commento degli auguri di buone vacanze di Mario Draghi agli italiani e fatelo alla luce di quanto appena descritto. Capirete cosa ci aspetta davvero, da qui a pochissime settimane. Buon lockdown, quindi. Oppure, a scelta, buon 2011 reloaded.
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