Donald Trump, temo, rischia di incartarsi. Oppure, ipotesi che tengo sempre aperta, sta per dare vita al suo ennesimo colpo di genio (suo o di chi lo consiglia, poco cambia all’atto pratico). Con mossa inattesa ha infatti twittato la propria decisione di dar vita a un nuovo stimolo fiscale per il comparto agricolo Usa “prima del Giorno del Ringraziamento, di cui beneficeranno soprattutto i piccoli e medi produttori”. E ancora, “nel frattempo, come avrete notato, la Cina sta ricominciando a comprare!”. Direte voi, nulla di strano: la campagna elettorale per le presidenziali sta entrando nel vivo, quindi ci sta che la Casa Bianca dia vita a “politiche mirate”. Tanto più che, come già detto, la prima ondata di sussidi andò a beneficio unicamente dei grandi produttori di Florida e California, lasciando pressoché a bocca asciutta lo strategico Mid-West, grande esportatore di soia verso Pechino. E grande elettore del tycoon newyorchese. Ora, cosa c’è quindi di strategicamente interessante in questa notizia?
Partiamo un po’ alla lontana, esattamente da questo grafico, il quale ci dimostra in maniera eclatante come la famosa guerra commerciale sia tutto tranne che che una disputa reale: i prezzi di import ed export sono infatti ai minimi da tre anni, sintomo che non c’è stato alcun impatto inflattivo della guerra tariffaria. Ovvero, non è una vera disputa commerciale.
E sapete perché? Perché i dazi che potevano davvero cominciare a fare male, quelli del 15 ottobre sono scorso, sono stati rimandati. E vedrete che, in un’ennesima esplosione di euforia da accordo a portata di mano, anche quelli previsti per il 15 dicembre verranno congelati. Usa e Cina sanno fino dove si può operare in modalità pantomima, sanno fino a quando si può tirare la corda: arrivati a quel punto, scattano la narrativa e la retorica ma cessano gli atti concreti. Il problema è che in base all’ultima lettura dell’Import price index cinese, Pechino oggi sta esportando deflazione al ritmo più sostenuto addirittura dal giugno 2007. Insomma, la Fed deve operare non solo per tenere in vita Wall Street, ma anche per tamponare gli effetti di questo trend storico, cui purtroppo non sta però seguendo il classico beneficio da do ut des: l’impulso creditizio cinese è ai minimi, perché come spiegavo nel mio articolo di sabato scorso, viene utilizzato tutto a livello interno per tamponare le sofferenze e il deterioramento dei crediti delle principali banche del Dragone.
Un guaio, insomma. Che, infatti, si è già sostanziato in questo: non solo su base annua il tasso di fallimenti nel comparto agricolo Usa è salito del 24% nel terzo trimestre, ma, cosa forse più grave, alcuni Stati chiave per il Presidente hanno presentato dati legati all’export – non solo agricolo – da mani nei capelli, stando alle letture diffuse la scorsa settimana dal Department of Commerce.
Qualche esempio? Da inizio anno e fino al 30 settembre scorso, il Wyoming, principale esportatore di prodotti chimici in Cina, ha visto le sue spedizioni calare dell’80% in nove mesi. Il settore automobilistico dell’Alabama ha registrato un -49%, quello dell’Idaho del 46%, quello di Washington del 45%, quello dell’Arkansas del 44%, quello della Florida del 40% e, per finire, quello del Texas del 39%. In totale, l’export di merci verso la Cina negli Stati presi in esame è calato del 15% a quota 78,8 miliardi di dollari nei primi nove mesi di quest’anno. E, attenzione, senza che la vera ondata di aumenti tariffari – quelli legati ad abbigliamento, calzature, elettronica e elettrodomestici – entrasse in vigore il 15 ottobre.
Insomma, sorge il dubbio che l’entusiasmo millantato nelle ultime settimane rispetto all’approssimarsi di un accordo possibile sia stato unicamente finalizzato – oltre a generare continui short squeeze che tengano alti gli indici azionari con acquisti di massa sui minimi – alla creazione di condizioni politiche per un rinvio anche dei dazi previsti per il 15 dicembre, letali per lo shopping festivo in Occidente.
Ed ecco arrivare la motivazione in base alla quale, quel tweet di Donald Trump in cui veniva annunciato un nuovo round di stimolo federale per gli agricoltori assume un’importanza strategica. Stando al South China Morning Post, infatti, il famoso accordo da 50 miliardi sul comparto agricolo che la Casa Bianca ha strombazzato nelle ultime settimane, semplicemente non esiste sulla carta. Pura fantasia. O propaganda, come preferite. E attenzione, molti specialisti fanno notare come – se anche un accordo simile venisse raggiunto – potrebbe non essere affatto sufficiente a tamponare l’epidemia di bancarotte di coltivatori e produttori statunitensi.
Primo, a detta di Darin Friedrichs, analista di commodities per l’Asia alla INTL FCStone di Shanghai, “con la febbre suina che ha letteralmente dimezzato gli allevamenti di maiali cinesi, la Cina non ha bisogno dello stesso volume di soia o mais per nutrire quegli animali. Non a caso, il prezzo della soia è sceso da 13 dollari per staio di due anni fa agli attuali 9 dollari scarsi. Quindi, se anche la Cina impazzisse o rimpiazzasse tutti i maiali morti, il controvalore non avrebbe comunque il medesimo impatto commerciale per i produttori Usa a livello di prezzo”. Secondo, per Nick Marro, capo della Economist Intelligent Unit a Hong Kong, “da prima che scoppiasse la guerra commerciale, la Cina ha compiuto enormi sforzi per diversificare i fornitori dei suoi beni primari a livello di import. E, attualmente, gli accordi firmati con Brasile e Francia già offrono valide alternative sui beni agricoli rispetto agli Usa”. Terzo, per quanto riguarda la carne, se nel 2012 l’import cinese dall’Australia era pari praticamente a zero, oggi vede volumi enormi e in continua crescita. Oltretutto, con tempi di percorrenza delle spedizioni drasticamente accorciati a livello di logistica.
Ed ecco il punto di caduta finale: stando a questo grafico, l’ultima lettura (15 novembre) del solitamente precisissimo GDPNow della Fed di St. Louis, il tracciatore del Pil in tempo reale, nel quarto trimestre di quest’anno vede la crescita economica Usa attesa solo al +0,4%. Dato che, una volta sottratte le spese governative (vedi ad esempio i nuovi sussidi agricoli, ancorché contabilizzati nel primo trimestre 2020) e il continuo aumento degli stock di magazzino, vedrebbe di fatto già oggi gli Stati Uniti in contrazione ufficiale.
Altro che l’economia più forte di sempre, solo Wall Street sta festeggiando. L’economia reale, la famosa Real America, sta a dir poco arrancando. Per questo sarà interessante capire se la mossa di Donald Trump verso gli agricoltori andrà letta come disperata o come strategica: perché i segnali giunti prima dal Kentucky e nello scorso weekend dalla Louisiana a livello di elezione dei Governatori, parlano chiaro. Gli Stati dell’America profonda, lontani anni luce da élites ed establishment, stanno voltando le spalle alla Casa Bianca. L’azzardo potrebbe essere arrivato a un punto di svolta. O alla fine.