Se fosse servita una conferma del fatto che la situazione stia precipitando, la telefonata di Mario Draghi a Vladimir Putin l’ha fornita in maniera inequivocabile. Quasi senza soluzione di continuità, un morphing degno di una presa d’atto che non permette ulteriore ritardo. E anche i toni e le parole utilizzate dal presidente del Consiglio italiano per dettagliarne i contenuti, dopo che l’agenzia TASS aveva strumentalmente reso noto urbi et orbi il colloquio fra i due, paiono non lasciare molto all’interpretazione: il no al cessate il fuoco si è incastonato nella discussione quasi come un surplus, un orpello, un qualcosa di scontato. Il fulcro ruotava tutto attorno a due concetti cardine: la rassicurazione di Mosca rispetto ai flussi di gas verso l’Italia e la disponibilità del Cremlino a sbloccare i carichi di grano fermi nei porti del Mar Nero. A una condizione: ritiro delle sanzioni. O, quantomeno, un drastico ammorbidimento e, soprattutto, lo stop all’escalation verso il comparto energetico.
Chiedo a voi, essendo io ritenuto smaccatamente di parte: un simile epilogo cosa pare suggerirci su chi sia il vincitore attuale e temporaneo della guerra? Magari poi cambierà tutto, magari l’ennesimo carico di armi pesanti che gli Usa invieranno a Kiev la prossima settimana cambierà gli equilibri sull’intero scacchiere. Ma, a oggi 28 maggio 2022, chi sta vincendo? Chi ha costretto il leader più falco dell’Europa a trazione Nato ad alzare la cornetta e farsi dettare le condizioni? Perché parlando al Forum Euro-asiatico, Vladimir Putin è stato chiaro nel suo giocare con i toni propagandistici: Le sanzioni hanno reso l’economia russa più forte. Un’esagerazione. Certamente, però, hanno reso talmente forte il rublo da obbligare la Banca centrale russa ad abbassare il tasso di interesse dal 14% all’11%. Mentre tutte le altre Banche centrali, almeno formalmente, stanno ritoccando al rialzo il costo del denaro. E sono costrette a fare i conti con una politica monetaria ostaggio dell’inflazione più forte degli ultimi 40 anni. E non c’è bisogno, credo, che io ripubblichi quel grafico che mostra come la guerra in Ucraina sia subentrata unicamente come booster finale di un trend dei prezzi a livello globale che stava esplodendo già dal periodo della pandemia.
Perché Mario Draghi ha deciso di entrare in campo come mediatore del grano? Perché, parafrasando un noto adagio, chi partì per sanzionare, tornò sanzionato. Mosca ha resistito finora a tutte le mosse di Usa e Ue, mentre l’Europa non ha resistito nemmeno alla minaccia di una crisi alimentare. Per due motivi. Primo, un ulteriore overshoot dell’inflazione che avrebbe messo la Bce e i governi dei vari Stati letteralmente con le spalle al muro. Secondo, i principali destinatari del grano russo e ucraino sono Paesi dell’Africa del Nord e centrale: tradotto, emigrazione di massa verso l’Europa. Facilitata oltretutto dalla bella stagione ormai iniziata. E da alcuni hotspot italiani già oggi al collasso. In ultimo, l’aggravante di una nuova crisi sanitaria legata al vaiolo delle scimmie che, seppur apparentemente divampato da un focolaio in Spagna, ha il suo centro endemico proprio in Africa.
C’è poco da fare, la guerra si basa sui rapporti di forza, forse più che sui missili e le bombe: e l’Europa, seguendo pedissequamente la retorica muscolare della Nato e di Washington, ha compiuto il più colossale degli errori diplomatici. Per dirla all’anglosassone, la regola aurea è don’t punch above your weight. Non scatenare risse che la tua costituzione fisica non di consente di poter vincere. Né combattere. E ora? Ora si apre una partita nella partita. E, proprio stante il profilo gravemente connotato dalla retorica del nostro Governo, per l’Italia sarà durissima. Perché non solo abbiamo menato vanto fino all’altro giorno del nostro impegno in prima linea nella fornitura di armi a Kiev, ma, soprattutto, per settimane siamo stati i cavalli di Troia della Nato in sede Ue per sfondare le resistenze tedesche sul comparto energetico da sanzionare. Non è un caso che George Soros abbia scritto a Mario Draghi per chiedere più coraggio nel bando sul gas russo e non a Emmanuel Macron od Olaf Scholz. Nulla capita a caso. Come non è stato un caso che palazzo Chigi abbia chiamato il Cremlino, di fatto andando pubblicamente e poco onorevolmente a Canossa. E, cosa ancor peggiore, vedendo i contenuti di quella chiamata obbligatoriamente resi noti su richiesta implicita di Mosca e, in contemporanea, con l’apposizione della pietra tombale sull’imbarazzante affaire del piano di pace da parte di Serghei Lavrov.
Le parole utilizzate dal ministro degli Esteri russo? Da gelare il sangue: Nessuno ci ha consegnato niente. Possiamo concentrarci solo su speculazioni e descrizioni dell’iniziativa del piano di pace dell’Italia che appaiono sui media… A quanto ho capito, nella proposta si dice che la Crimea e il Donbass dovrebbero far parte dell’Ucraina con un’ampia autonomia. Ebbene, politici seri che volessero ottenere risultati, e non fossero impegnati solo nell’autopromozione davanti al proprio elettorato, non formulerebbero tali offerte. Luigi Di Maio dovrebbe dimettersi oggi. Anzi, in un Paese serio sarebbe stato energicamente invitato a farlo un minuto dopo le dichiarazioni del suo omologo russo e appena abbassato il ricevitore del telefono con il Cremlino. La Farnesina si è letteralmente coperta di ridicolo, anni e anni di credibilità diplomatica che ci avevano garantito riconoscimento internazionale nella mediazione e nella facilitazione gettati letteralmente nel tritarifiuti da dilettanti allo sbaraglio. Un danno che non è collaterale, bensì diretto. E permanente. Chiunque andrà al Governo nel dopo-Draghi. Una macchia reputazionale che vale venti pacchetti di sanzioni. Forse di più.
E poi, chi ha detto che ci sarà un dopo-Draghi, quantomeno nel 2023? La situazione politica sta letteralmente implodendo, basti prendere atto del compromesso da barzelletta cui Lega e Forza Italia si sono prestate sul Ddl concorrenza e sulla questione delle concessioni balneari, tutto pur di evitare un voto di fiducia che per loro avrebbe rappresentato il redde rationem con la coerenza. Non a caso, Giorgia Meloni ha caricato a testa bassa contro la decisione di far passare il testo come richiesto dall’Europa, salvo garantire al Governo la delega per decidere in un secondo tempo il valore degli indennizzi. Quali, se già oggi c’è un veto Ue su nuovo deficit? Un assist così la leader di Fratelli d’Italia non se lo aspettava proprio dagli alleati, soprattutto a due settimane dalle amministrative.
E attenzione, perché con la sua telefonata a Vladimir Putin, Mario Draghi avrà dovuto sacrificare un po’ di autostima, ma certamente ha messo in cascina parecchio fieno politico per l’autunno. La rassicurazione sul gas e l’apertura sul grano, infatti, sono risultati di natura concreta ed esiziale. E totalmente e mediaticamente riconducibili all’azione personale della sua leadership e non al profilo litigioso e screditato del suo Governo ormai allo sbando. Se i sondaggi confermeranno e magari estremizzeranno ancora di più il bipolarismo Pd-Fratelli d’Italia dopo il voto del 12 giugno, proprio sicuri che qualcuno non sarà tentato da un Draghi-bis, pur di rimandare la debacle alle urne nel 2023? Oltretutto, quantomeno in casa M5S sponda Conte, con la credibilità di Luigi Di Maio ridotta ormai in cenere dalla pagliacciata del piano di pace.
Insomma, occorre prendere atto che Vladimir Putin ha proprio perso. Poi, però, spegnete la Playstation. E usate La Repubblica e Il Foglio per incartare le uova.
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