Non più tardi di due settimane fa, in un mio articolo facevo notare il livello record di accantonamenti prudenziali posti in essere dalle principali banche statunitensi, sintomo del timore concreto che la crisi da Covid-19 e il conseguente lockdown avrebbero dato vita a un’ondata di default corporate, pronti a tradursi in sofferenze dirette sugli oneri di mutui e prestiti. Addirittura, JP Morgan – prima banca del Paese per assets – la scorsa settimana ha unilateralmente innalzato ulteriormente quei cuscinetti, aumentando le sue riserve di sette volte, come mostra il primo grafico più in basso.Ma c’è di più, come mostra il secondo grafico, a farci chiedere implicitamente cosa sappiano le grandi banche Usa che gli altri, politica in testa, sembrano/vogliono ignorare.



Il Jumbo Index, tracciatore del livello di disponibilità dei cosiddetti Jumbo loans, a marzo ha segnato un netto -37%. Si tratta di mutui con valori molto più alti della media, solitamente accesi da clientela facoltosa, con ottimo rating di credito e collaterale da porre a garanzia. Di più, il tasso applicato a questa categoria la settimana scorsa era del 3,68%, oltre 30 punti base sopra quello convenzionale, lo spread più alto dal 2013. Cosa temono quindi le banche Usa, tanto da farle rinunciare anche a un business così formalmente sicuro e profittevole?



Nel fine settimana, poi, ulteriore conferma della tensione in atto. Stando a un reportage del Financial Times, non solo gli istituti statunitensi stanno cautelandosi sul mercato interno ma anche nella loro esposizione verso l’estero, Europa in testa. In base a quanto riportato dal quotidiano della City, “banchieri, advisers e compagnie esecutive d’Oltreceano stanno diventando, giorno dopo giorno, sempre più cauti nel sottoscrivere prestiti bilaterali e di sindacato verso grandi aziende del Vecchio Continente”. Un esempio chiaro è dato proprio da JP Morgan, la quale recentemente si è chiamata fuori dalle trattative per ampliare una linea di credito verso Basf, il più grande gruppo chimico al mondo, mentre Bank of America ha dimezzato il suo impegno in un syndacate loan – con garanzia statale – che comprende altre sei banche internazionali per un prestito da 3 miliardi di euro verso Adidas, gigante dell’abbigliamento sportivo. Infine, sempre queste due banche hanno detto “no” al prestito a breve termine verso Informa, gruppo che opera nel mondo degli eventi e dell’editoria, chiamandosi anche fuori da un contestuale share placement da 1 miliardo di sterline, questo nonostante Bank of America abbia operato come broker per l’azienda per oltre 10 anni.



Infine, sempre BofA ha negato la propria collaborazione a un potenziale aumento di capitale per cercare di salvare il gruppo di catene cinematografiche Cineworld, mentre anche Goldman Sachs – dopo aver facilitato un syndicate loan da 3,5 miliardi di dollari per Fiat Chrysler solo a inizio aprile – ha rigettato l’ipotesi di operare per il rivale tedesco e suo antico cliente, Daimler, rispetto a una facility da 12 miliardi di euro. Insomma, non aziende da poco e con rating poco tranquillizzanti. Giganti.

“Stiamo osservando un crescente atteggiamento da America first fra le banche statunitensi, quelli appena elencati non sono casi di idiosincrasia verso un accordo o un altro, si tratta di un pattern chiaro”, ha dichiarato una fonte anonima al Financial Times. Tanto che solo nel primo trimestre di quest’anno, i cinque principali istituti di credito Usa hanno visto calare il loro tasso di partecipazione a syndicate loans in Germania di oltre un terzo, con la quota di mercato ora al 14,6%, stando a dati di Refinitiv. E il trend sta peggiorando. “Se una banca presente in un consorzio si chiama fiori dai giochi, la questione non contempla solo il fatto che gli altri partecipanti debbano colmare il gap venutosi a creare nel controvalore del finanziamento, ma rischia di creare un precedente, tale da poter indurre anche altri soggetti a un ripensamento”, conclude la fonte interpellata dal FT. Insomma, uno dei canali di finanziamento corporate preferito dalle grandi aziende europee (in dollari) sta venendo meno. In fretta e in maniera tutt’altro che diplomatica e graduale.

E se questo mostra quale ruolo sempre maggiore la Bce si appresti a giocare nella Fase 2 di questa crisi, qualcun altro pare attendere il momento giusto, come un cobra che gonfia la testa sibilando, in attesa di colpire. Stando a un reportage di Bloomberg, infatti, i principali banchieri cinesi hanno confermato come nell’ultimo periodo – coinciso con il ritorno in grande stile della stamperia di Stato della Pboc – aziende e fondi del Dragone stiano aumentando il loro attivismo per dare vita a una campagna di shopping corporate proprio in Europa, sfruttando la debolezza indotta dalla pandemia e il tonfo del 23% da inizio danno dell’indice MSCI Europe, il quale traccia i movimenti del segmento più sviluppato del mercato europeo. Insomma, i cinesi sono pronti – contante statale in mano – a lanciarsi in attività di M&A a forte sconto nel Vecchio Continente.

Il tutto, sintomo di ulteriore pericolo, proprio mentre le grandi banche Usa si chiamano fuori dal finanziamento di prestiti che, per alcuni soggetti, rappresentano proprio un’arma difensiva per non cedere alle lusinghe di presunti “cavalieri bianchi” d’Oriente, il cui atteggiamento negli anni non è cambiato. Predazione allo stato puro, visto che si arriva carichi di liquidità e si propone ad aziende in difficoltà di entrare nel capitale con una rassicurante quota di minoranza, salvo poi scalare dall’interno il controllo a colpi di aumenti di capitale ostili.

Al centro del mirino ci sarebbero due settori particolarmente colpiti dalla pandemia, ovvero linee aeree e catene alberghiere, ma Bloomberg parla chiaramente di un occhio molto attento da parte dei capitali cinesi anche verso i campionati di calcio del Vecchio Continente, in crisi da blocco delle attività e dei diritti televisivi e facilmente lusingabili, soprattutto vista la presenza già massiccia di capitali del Dragone in proprietà e contratti di sponsorizzazione. Non a caso, stando al report, molto aziende europee stanno approntando strategie difensive, quasi un arrocco per evitare il rischio di soccombere ai cosiddetti hostile suitors, tanto che fonti bancarie del Vecchio Continente confermano approcci da parte dei management alla ricerca di aiuto per difendersi da potenziali takeovers ostili.

Insomma, dopo il tonfo nel controvalore di deals registrato dal conglomerato cinese HNA Group, limitatosi nel primo trimestre ad accordi per “soli” 11,3 miliardi di dollari, il minimo dai primi tre mesi del 2013, pare che Pechino sia pronta a ridare slancio alla sua espansione commerciale a livello globale. I bersagli? Sempre gli stessi: automotive, energia, infrastrutture e soprattutto tecnologia avanzata. Non a caso, la CNIC Corporation, fondo d’investimento a controllo statale, sta considerando l’acquisto di una quota del 10% del Greenko Group, uno dei leader indiani del mercato delle energie rinnovabili. E se riguardo all’India si sta riflettendo, in Europa si è già operativi: il Shanghai Yuyuan Tourist Mart Group, conglomerato con base a Fosun e quotato a Shanghai, ha appena annunciato l’acquisizione del 55,4% del brand di gioielleria francese Djula per circa 30 milioni di dollari.

La stessa Fosun International Ltd. non ha affatto nascosto o dissimulato le sue mire, parlando di “opportunità di investimento che, grazie al calo generalizzato dei prezzi garantito dalla pandemia, si palesano una volta ogni cento anni”. Predatori, appunto. Ma di Stato. “Potremmo ancora essere allo stadio iniziale, ma speriamo di assistere a un graduale aumento dell’attività nella seconda metà dell’anno in corso da parte delle aziende cinesi, impegnate nello stringere accordi non solo nell’area del Pacifico ma anche in Europa. Attività e industrie come quelle dei prodotti di largo consumo, dei viaggi e dell’ospitalità torneranno abbastanza in fretta ai livelli pre-crisi, una volta messa sotto controllo la pandemia. Quindi, questo è il momento di agire”, conferma a Bloomberg Yang Wang, partner alla Dechert LLP, studio legale di Hong Kong specializzato in diritto societario e operazione di M&A.

Insomma, il rischio di una colonizzazione corporate cinese dell’Europa non è così peregrino. Anzi, in molti casi sono proprio attori primari di quel segmento di mercato a confermarlo. Che fare, quindi, a fronte di difficoltà nel reperire finanziamenti nello storico mercato dei syndicated loans e delle linee di credito corporate statunitensi e di una Bce che per ora pare non essersi attivata al riguardo, limitandosi al canale degli acquisti di bond corporate? I vari governi nazionali europei, anche su impulso della Commissaria Ue alla competizione, Margrethe Vestager, hanno dato vita a legislazioni d’emergenza che amplino la tutela dei propri settori strategici contro takeovers ostili di Pechino, ma da più parti, ormai, pare indifferibile il fatto che l’Unione europea si doti di una propria versione del Cfius (Committee on Foreign Investment in the United States) statunitense, organismo politico sempre più attivo in tal senso. E che lo scorso anno obbligò alla ritirata un conglomerato cinese interessato all’acquisto della app per appuntamenti Grindr. La ragione? Sicurezza nazionale, stante la messe di dati sensibili che quell’acquisizione apparentemente innocua e in nome del business as usual avrebbe indirettamente garantito a soggetti cinesi dichiaratamente a controllo – totale o parziale – dello Stato. Quindi, anche delle Forze armate e dei loro programmi di guerra a bassa intensità.

Al riguardo, l’ex Ceo del gigante delle telecomunicazioni svedese Ericsson, Sven-Christer Nilsson, appare avere le idee molto chiare: “L’Europa deve assolutamente dare vita alla sua versione del Cfius, così come fanno i vari Stati membri con provvedimenti ad hoc ma non coordinati. Non possiamo più aspettare o a breve assisteremo allo spettacolo di attori commerciali cinesi che avanzano ad aziende europee offerte economiche che queste, stante il momento, non possono permettersi di rifiutare”.

Forse, piuttosto che perdere tempo con gli eurobond, sarebbe il caso di agire per evitare di ritrovarci – quasi senza accorgercene – sotto le bandiere rosse di Pechino, costretti a cedere rami di aziende strategiche o comunque commercialmente profittevoli per l’incapacità di difenderci in maniera efficace. Certo, stante questa dinamica, il timing della decisione presa dalle banche Usa nei confronti del comparto corporate Ue, da sempre loro cliente privilegiato, appare quantomai sospetto. Anche perché, come mostra questo grafico, subito prima che il Tesoro statunitense lanciasse il suo programma di prestiti garantiti alle piccole e medie aziende, il livello di concessione di credito verso attività commerciali da parte dei giganti bancari americani aveva raggiunto picchi record. Di colpo, rubinetti chiusi.

E cosa pensare, poi, delle affermazioni di certi leader politici in pectore del nostro Paese, smaccatamente a favore di un approccio economico bilaterale alla crisi totalmente sbilanciato verso la Cina? Chissà cosa li spinge verso certe posizioni? Perché se nel primo caso può in parte reggere la motivazione prudenziale e “patriottica” di tagliare al massimo le esposizioni estere, attendendo già una catena di default interna a cui dover resistere e la cui risoluzione va priorizzata, nel secondo il saltare fuori out of the blue dopo mesi di silenzioso esilio in Iran per spingerci fra le salvifiche braccia del Dragone potrebbe prestarsi a interpretazioni malevole. Molto malevole. Soprattutto se messe in relazione con un certo memorandum – totalmente inutile all’atto pratico ma molto compromettente a livello politico – siglato in spregio di alleanze atlantiche e cautele europee. Attenzione alle aziende del Nord Italia, bocconi prelibati. E, a breve, forse forzatamente a prezzo di saldo, visto il nulla in cui si è sostanziata la mitologica Fase 2 annunciata domenica sera da Giuseppe Conte.

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