Il problema di una società senza memoria come la nostra è che smette di porsi domande. Il bombardamento di notizie veicolate è tale da essere portata a un reset praticamente quotidiano. Trattasi di sopravvivenza.

Se così non fosse, infatti, sorgerebbe ad esempio spontaneo chiedersi cosa sia accaduto nel breve arco di tempo di 8 mesi. Perché dopo la visita alla Casa Bianca con tanto di bacio in fronte, Giorgia Meloni stracciò nel modo più plateale possibile il Memorandum con la Cina siglato dal primo Governo Conte. E lo fece alla vigilia dell’arrivo di Xi Jinping a Bruxelles per il bilaterale fra Unione europea e Cina. Un vero e proprio sgarbo istituzionale in piena regola. Figlio della ragion di Stato, si pensò. Di un pragmatismo machiavellico che vedeva l’asse Italia-Usa alla vigilia di un rafforzamento tale da necessitare una “prova d’amore”.



All’epoca si parlava di investimenti a pioggia delle tech statunitensi nel Vecchio continente e il Belpaese sembrava in pole position. A beneficiare furono Polonia e Germania. Poi ci fu la questione della Nato e del comando Sud Europa. Andato alla Spagna. Era marzo.

Fast forward a oggi. Quando il presidente Sergio Mattarella torna in Italia dalla sua lunga, delicata e fondamentale visita di Stato proprio in Cina. Con tutti gli onori. Serve memoria. Memoria di quanto è stato fatto e di quanto nel frattempo è accaduto. Narrativa contro realtà. D’altronde, Guy Debord ci diceva con ampio e profetico anticipo come nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso. E come ricordato dal presidente Mattarella al termine dell’incontro con Xi Jinping, le aziende italiane in questi otto mesi hanno bellamente sconfessato la linea ufficiale di politica estera e commerciale del Governo. In nome del sacrosanto spirito d’impresa. Lo stesso che non ha visto le nostre aziende continuare a fare affari con la Russia, ancorché attraverso il paravento delle sussidiarie o prestanome in Kazakhstan o Serbia. Ha dichiarato Mattarella: Gli investimenti italiani in Cina sono cresciuti in maniera piuttosto veloce. Sono arrivati a 15 miliardi nel 2023 e auspichiamo che anche quelli cinesi possano crescere in Italia, perché al di sotto del potenziale possibile.



Perché nessuno chiede conto a palazzo Chigi e ai ministeri interessati di questa svolta che certamente non ha beneficiato di un passaggio chiarificatore in Parlamento? Perché nessuno chiede quale sia il conto che l’Italia sta già pagando per quella scelta affrettata dello scorso marzo? Perché nessuno si rende conto che continuare a trattare la Cina come un laboratorio da sottoscala globale che sovra-produce chincaglieria per gonfiare il Pil equivale a suicidarsi economicamente e politicamente? I ministri Tajani e Urso, ad esempio, cosa ne pensano? E per favore, evitiamo di attaccarci alle chiose del presidente della Repubblica sulla reciprocità di approccio. La Cina è un gigante, l’Italia un nano. Ma, soprattutto, l’Italia ha bisogno di investimenti cinesi. E non il contrario.



Ma le domande sono tante. E a proposito di investimenti, date un’occhiata a questo link. Il tempo stringe. Entro il 28 novembre il Mef deve dar vita al collocamento del 14% d Mps che gli consentirà di scendere sotto il 20% di partecipazione, come concordato con Bruxelles. Ma dopo Unipol, ecco che anche il gruppo MSC di Gianluigi Aponte avrebbe risposto “no, grazie” all’ipotesi di cordata italiana per Rocca Salimbeni. E qui, a mio avviso, le domande sono due.

Primo, alla luce dei conti presentati l’8 novembre, perché tutti si tengono lontani da Siena come Superman dalla kryptonite? Secondo, perché Unicredit si è lanciata in un’operazione a colpi spericolati di swap e con alto tasso di criticità politico-diplomatica per scalare il corrispettivo tedesco di Mps (fallita e salvata dallo Stato), invece di giocare in casa? Perché fare domande pare sempre più attività di nicchia? E con sgradevoli conseguenze di isolamento.

Certo, rispolverare toni e polemiche da anni Settanta fa comodo a tutti. Non fosse altro perché consentono divagazioni ulteriori dalla realtà. Certo, il ping pong a spese dei contribuenti fra Governo e magistrati sulle gitarelle in Albania di quattro clandestini consente una battaglia social a colpi di tweet che pare specialità della casa della nostra classe dirigente. Certo, utilizzare la crisi tedesca come alibi per non guardare in faccia la nostra realtà macro e quella dei conti pubblici, un’occasione che si presenta ogni 40 anni e che non va sprecata. Ma passate l’appuntamento con le urne di Emilia-Romagna e Umbria, forse qualche domanda occorrerà porsela. E, cosa più importante, qualche risposta non elusiva andrà fornita. Perché di emergenza in emergenza si guadagnano giorni. Forse settimane. Ma da qui a fine anno, i redde rationem all’orizzonte sono parecchi. Mentre le fabbriche licenziano. E le banche riempiono i sacchetti di sabbia della contrazione creditizia per anticipare l’aumento di sofferenze e incagli.

La realtà è questa. Ma come per la questione cinese, esiste un doppio livello. Esiste un vero che è solo appendice del falso. Ma con cui, alla fine, toccherà comunque fare i conti. A quando, ad esempio, un via libera ufficiale del Governo alla ripresa dei rapporti con Gazprom? Già oggi, l’utility serba sta lavorando in tal senso. Ma nessuno ve lo dice. Perché ammettere di avere sbagliato costa. E alla politica di questi tempi conviene l’amnesia collettiva.

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