Quale piazza farà più rumore oggi? Quella di Milano, dove il ministro Salvini ha chiamato a raccolta i militanti per la chiusura pubblica della campagna elettorale in vista delle europee o quella di Parigi, simbolo di ogni città francese che scenderà in strada per il 27mo sabato di protesta contro il Governo? Non è una domanda polemica, né retorica. È sostanziale. E dirimente. Perché, piaccia o meno, fra millantarsi e autoproclamarsi testa d’ariete contro il sistema e scoprirsi avanguardia sotto copertura dello stesso, il passo è breve di questi tempi. E il caso francese è di scuola, in tal senso. Come sapete, ho denunciato la natura strumentale e destabilizzante in senso di perpetuazione dello status quo del movimento dei “gilet gialli” fin da principio, non temo smentite al riguardo. Oggi è ora di tirare le somme, visto che, come dicono i francesi, le jeux sont faits. Vi invito a dare un’occhiata a questo link, tratto dalla versione on-line di Le Monde, perché è davvero istruttivo.



Primo, ci mostra come anche Oltralpe la passione per la scissione politica dell’atomo sia ormai inarrestabile: sono infatti ben 34 le liste presenti, un guazzabuglio informe e incredibile di istanze spesso al limite del ridicolo. Ovviamente, con due temi preponderanti, declinati in varie sfumature e accenti: la lotta alla povertà e per l’ambiente e quella contro Bruxelles, spesso intesa come palese sostegno al cosiddetto Frexit, l’uscita della Francia dall’Ue. Sapete chi manca? I “gilet gialli”. O meglio, qualcuno di loro – più furbo – si è inventato la sua listarella semi-personale o si è arrabattato per una sorta di esistenza dentro liste già esistenti. Ma non esiste il “Partito della protesta” ufficiale, l’emanazione politica del movimento che da novembre scorso infiamma ogni sabato francese che Dio mandi in terra.



Eppure, non più tardi di inizio anno, dopo il messaggio alla nazione di Emmanuel Macron, i soliti politologi di lungo corso prefiguravano terremoti istituzionali. Addirittura recitavano il de profundis per la fine politica anticipata dell’inquilino dell’Eliseo, vero poster-boy dell’europeismo in calo di appeal popolare, magari mettendo già in ghiaccio lo champagne da stappare per le sue dimissioni sotto pressione della piazza. E, soprattutto, ci si lanciava in ardite previsioni: i “gilet gialli” e il loro soggetto politico in elaborazione sarebbero pesati fra il 13% e il 15% alle elezioni europee, il vero punto di nuovo equilibrio della bilancia nazionale. E, infatti, attorno a gennaio, prima delle devastazioni sugli Champs Elysées, tutti andavano a lisciare loro il pelo. La destra della Le Pen, così la sinistra di Mélenchon. Senza scordare, ovviamente, quel Machiavelli sotto mentite spoglie del nostro vice-premier, Luigi Di Maio. Tutti in pellegrinaggio dagli scappati di casa, incapaci di organizzare una singola lista per le amministrative di un comune di 8mila abitanti ma mediaticamente fortissimi, grazie alle imprese da Sanculotti 2.0 di casseurs e black bloc. E alla fine, com’è andata? Come vi avevo detto: si sono ridotti a pulviscolo. E non solo nelle prospettive elettorali, proprio nelle piazze, viste le presenze residuali degli ultimi due sabati.



Ed Emmanuel Macron, dove è finito? Ritirato a vita privata? Conferenziere alla Clinton o alla Blair? Intento a scrivere un libro di memorie? No, è tranquillo all’Eliseo. Anzi, sta battendo tutto il Paese come un matto per l’ultima settimana della campagna elettorale. Ed ecco subentrare il secondo abbaglio, dopo quella dell’onda gialla che avrebbe travolto la paludata e classista pattuglia di potere dell’ex banchiere Rothschild: da ieri, tutti esaltano il primo posto nei sondaggi del Rassemblement National di Marine Le Pen come atto collaterale della protesta di piazza. E, per tutti, questo è divenuto comodo alibi cui aggrapparsi. Per gli europeisti, l’ennesimo segnale di deriva anti-Ue da fermare a ogni costo. Per i sovranisti, la riprova che la rabbia popolare si può incanalare in un voto che è divenuto, segno dei tempi, interclassista e post-ideologico, purché sia anti-Bruxelles e percepito come contrario allo status quo. Ma la realtà, anche in questo caso, è un pochino differente.

Ce lo mostra questa analisi di Le Figaro, la quale certifica il capolavoro compiuto proprio dai poteri forti – i quali in Francia esistono ancora e per davvero – attraverso l’operazione “gilet gialli”, lo sfogatoio spaccatutto del qualunquismo piccolo-borghese che gioca alla rivoluzione per un po’, tanto per vedere l’effetto che fa. Sapete a chi ha drenato consensi con il badile la Le Pen, arrivando anche così al primo posto nei sondaggi pre-elettorali? All’unica alternativa istituzionale, repubblicana e credibile di sinistra in Francia, ovvero La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Nel cui elettorato, il 36% dichiara di avere una “buona opinione” rispetto al partito della Le Pen, un dato che solo quattro anni fa era inchiodato a un più naturale e ontologico 5%. Esatto, il 36%. Esattamente la stessa percentuale di cui è accreditato il Rassemblement National in vista del voto di domenica prossima.

E pensate che Emmanuel Macron abbia paura di questo? No, lui voleva questa polarizzazione del voto, la bramava. Per il semplice fatto che, come ci insegnano le ultime quattro elezioni presidenziali francesi, ogni volta che lo scontro si semplifica e porta da un lato la destra del fu Front National e dall’altro qualunque cartonato di turno la Republique abbia a disposizione e portata di mano nella battaglia antifascista del momento, quest’ultimo sul medio termine vinca. Chirac, Hollande, Sarkozy, lo stesso Macron in prospettiva: politicamente impresentabili, pressoché inetti, usciti dall’Eliseo o travolti dagli scandali o con percentuali di sostegno popolari simili a quelle di un condannato per strage e finiti nel dimenticatoio. Ma, comunque, in grado di battere l’alternativa anti-sistema, quando è stato necessario. Sarà così anche per Macron? Ovviamente sì, la parabola meteoritica ed eterodossa del movimento dei “gilet gialli” ce lo conferma, ogni giorno di più.

E pensate che il giallo come colore prevalente sia un caso? Chi utilizza nel simbolo e nelle bandiere, in Italia, quel colore? E chi sta beneficiando della Tangentopoli 2.0 e in sedicesimi in atto, casualmente, a ridosso delle europee? Oltretutto, avendo anche la poca decenza di evocarla direttamente, sentenziando che domenica prossima la scelta è fra “noi o la nuova Tangentopoli”? Avete un’idea, per caso? Un sospetto? Un indizio? Davvero pensavate che gente come Toninelli o la Lezzi o la Castelli potessero arrivare ad ambire a ruoli ministeriali in un Paese del G7, se questo non fosse stato parte integrante di una strategia di ben più ampia di stabilizzazione degli equilibri in pericolo, la quale passa sempre attraverso la dissimulazione e la cortina fumogena del caos giustizialista e populista per lisciare il pelo al cosiddetto e mitologico “popolo”?

Rileggete Sun-Tzu, prima di andare alle urne. Fidatevi. Al ministro Salvini, invece, qualunque sia l’esito numerico della sua adunata odierna, consiglio Il signore delle mosche. Forse, capirà di quale gioco è divenuto – suo malgrado – inconsapevole pedina, pensando davvero di poter cambiare le cose con un’alleanza talmente rivoluzionaria e di cambiamento da basarsi interamente sul più formale e notarile dei patti. Ovvero, un contratto.