Stavolta non potete davvero dire che non vi avevo avvisato per tempo. Con tanto di cartina. Ci sono war games in atto in prossimità del chokepoint di Bab el Mandeb, di fatto la porta al Mar Rosso. E uno snodo chiave per l’Arabia Saudita. La stessa che in sede Opec spinge per tagli alla produzione di petrolio per gonfiare il prezzo del barile. La stessa che minaccia una piattaforma di trading sulle terre rare. La stessa che ha visto la propria Banca centrale dar vita a una swap line da 7 miliardi con la Pboc cinese. Siamo forse alle prove generali di un Nord Stream 2.0? E con un potenziale recessivo globale che la Fed benedirebbe seduta stante, visto che renderebbe possibile un taglio emergenziale già prima di quel marzo 2024 pienamente prezzato dai futures?
In effetti, i sospetti ci sono tutti. Gli indizi, pure. Mancano le prove. Ma il fatto che a dare per prime la notizia di attacchi con droni contro navi commerciali siano state fonti militari britanniche, già lascia qualche briciola sul terreno. Furono loro a dirsi per prime certe della responsabilità russa per il sabotaggio di Nord Stream. E il fatto che a confermare ed enfatizzare l’entità dell’attacco sia stato il Pentagono, in forma ufficiale, configura un’asfaltatura stile Anas di quel viottolo di dubbio. Il tutto, mentre il Canale di Panama è bloccato dai colli di bottiglia generati dai blocchi alla navigazione per siccità, talmente seri da prospettare problemi anche al Canale di Suez per il re-indirizzamento delle rotte. Manca Hormuz, the gate of grief. Il chokepoint da dove passa la maggior parte di quel greggio saudita appena tornato prepotentemente arma geopolitica, prima che mera commodity.
Se la situazione a Bab el Mandeb dovesse degenerare, l’addio alla retorica del soft landing sarebbe immediato. E offrirebbe un alibi straordinario per sgravare da responsabilità mercato e Governi: ancora una volta, destabilizzazione bellica. O terroristica. O entrambe. Comunque sia, recessione pressoché garantita. A tempo di record. Collasso della supply chain, il tutto mentre – nel silenzio generale dei media – le commodities alimentari (riso in testa, date un’occhiata alle quotazioni e alla politica da corner del mercato che sta operano l’India con il suo bando all’export) stanno conoscendo aumenti di prezzo che in un recente passato hanno già operato egregiamente da carburante per le varie primavere arabe. A quel punto, hai voglia a fare accordi con l’Albania.
Potenzialmente, la tempesta perfetta è davanti a noi. Che si abbatta con tutta la sua potenza o si limiti a qualche danno collaterale, rimane l’unica variabile. Che la crisi di Gaza si stia estendendo a macchia d’olio in una vera e propria destabilizzazione a macchia di leopardo, questo appare certo. Fin da ora. E il fatto che l’ultima area a incendiarsi, in attesa che la Siria si riprenda le prime pagine, sia strettamente legata alla strategia della tensione iraniana, aggiunge solo accelerante.
Governare il caos, ecco l’agenda che caratterizzerà le prossime settimane. Dare un ordine. Consolidarlo. E farlo rispettare. La Cina starà a guardare? Difficile. Stavolta, davvero nessuno può dirsi colto di sorpresa dall’accaduto. Almeno non chi legge quasi quotidianamente questi articoli.
Ma andiamo oltre. Guardate questo grafico e chiedetevi: quanto ci metterà l’Arabia Saudita prima di dichiarare guerra ai CTA e a Wall Street per questa manipolazione sistemica del suo core business?
I numeri offerti dallo studio di TD Bank e JP Morgan sono da shock. I CTA – ovvero gli algoritmi degli hedge funds – sono di fatto responsabili per il 70% del trading quotidiano di petrolio. Pura speculazione. No delivery. Nessuno vuole i barili, mica sono linee aeree. O fabbriche. Seguono (e amplificano) i trend. A detta di Ilia Bouchouev, ex managing partner alla Pentathlon Investments e oggi docente alla New York University, «nessuno ha davvero percezione di quanto enormi siano le loro posizioni. Probabilmente, molto più grandi di BP, Shell e Koch. Messe insieme».
Ecco spiegato, al netto degli stop-and-go di Gaza e dell’eco macro di recessione, il perché del secondo fallimento di un blitz saudita in sede Opec. Nonostante un ulteriore taglio alla produzione, l’uptick è durato un attimo. Ieri, già sotto quota 75 dollari. Nel frattempo, Washington compra a rimpingua le riserve strategiche. Ma l’Arabia è conscia della strategia. Non è sfuggito a Ryad quanto dichiarato dal Presidente venezuelano Maduro: l’industria oil&gas del suo Paese nel terzo trimestre ha conosciuto un aumento del 12,9%. Nemmeno a dirlo, tutto frutto dell’esenzione garantita proprio dagli Usa rispetto al regime sanzionatorio. Da loro imposto. L’Opec più la Russia premono per far aumentare il prezzo, gli Usa giocano ogni carta per schiacciarlo. Fondamentali macro? Non pervenuti.
Il petrolio è solo gioco politico e di speculazione finanziaria. Ryad lo sa. Non a caso, ha vissuto per decenni sulla manleva del petroldollaro. Oggi, però, la questione si fa esiziale. Per le sue casse. E il suo ruolo nella regione, sempre più turbolenta e destinata a diventare il warfare playground del mondo. Et voilà, come ricordavamo prima, ecco la swap line con la Banca centrale cinese e la proposta di piattaforma di trading per le terre rare con sede a Ryad.
Ma non basta. Date un’occhiata a quest’altro grafico, alla luce delle valutazioni dell’oro letteralmente esplose tra domenica e lunedì e salite fino al record assoluto di 2.140 dollari l’oncia: mostra la correlazione fra prezzo dell’oro in Asia (Shanghai USD) e quello spot e di carta occidentale, fra Comex e Cme.
Un premio notevole, uno spread che parla la lingua di accumulazione cinese che va ben oltre la diversificazione delle riserve della Pboc. E anche di un’eventuale strategia backdoor di de-dollarizzazione a garanzia di un eventuale, futuro yuan benchmark. Bene, quel pattern va in re-couple. Molto rapido. Venerdì l’oro aveva chiuso la giornata a 2.074 dollari l’oncia, massimo storico. E il fatto che i futures prezzino all’80% un taglio dei tassi della Fed già marzo, rischiava di operare da accelerante. E così è andata. Nell’arco di 48 ore. Anzi, meno.
Ora guardate questo ultimo grafico: quanto oro fisico ha, realmente, l’America nel suo casinò di contratti di carta?
Si chiama commodity weaponization, la trasformazione delle materie prime in armi di lotta geopolitica, l’affinità elettiva che unisce Pechino, Mosca e Ryad. Oggi è deterrenza. E se un giorno, davvero, si puntasse a far saltare i due casinò dei futures?
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