“Questa messe di criticità a livello globale potrebbe generale effetti secondari non lineari e destinati a trasformarsi in vere e proprie dinamiche da cascata, se per caso le chiusure produttive dovessero protrarsi più del preventivato. Un qualcosa che, ad oggi, non è prezzato dalle equities”. Così parlò Eleanor Creagh di Saxo Bank, nella sua ultima nota agli investitori. Insomma, la crisi cinese rischia di far saltare il banco della bolla tech, aprendo le porte a uno scenario da 1999-2001 reloaded? E chi o cosa deve allarmare maggiormente? Se Apple con la sua revisione al ribasso della guidance sugli utili fa paura e si prefigura come la proverbiale bandiera gialla che avverte del pericolo potenziale rappresentato dall’entrare in acqua, anche alla luce del suo market cap, il vero detonatore di un potenziale Big Bang in seno al comparto tech rimane Tesla, la quale negli ultimi giorni ha ricevuto tre pessime notizie. Blocco delle attività produttive e di consegna in Cina del Model 3 a causa del coronavirus, protrarsi dei guai con la Sec emersi lo scorso dicembre e, soprattutto, richiamo di 3.183 Model X proprio in Cina, dopo i 15mila già annunciati in Nord America, a causa del malfunzionamento di un componente del motore. Insomma, più di una preoccupazione.



Ma ecco che, nonostante tutto questo e le notizie non certo rassicuranti in arrivo da Oriente, il 18 febbraio Morgan Stanley ha rimosso il titolo Tesla dalla categoria sell in cui lo aveva inserito solo un mese fa, tagliando il target price a 650 dollari per azione e ha rivisto al rialzo il bull case a qualcosa come 1.200 dollari: in un mese, quasi raddoppiato. Questo, nonostante l’ammassarsi di criticità venutosi a creare proprio nell’arco temporale fra metà gennaio e oggi.



Il problema maggiore, però, sta in questo grafico: stante la valutazione attuale offerta da Morgan Stanley, il differenziale fra bear case e bull case del titolo Tesla è di qualcosa come 980 dollari! Insomma, lo spread fra prezzo più pessimistico e target price appena stilato dalla banca è di un’ampiezza tale da assomigliare alle previsioni un meteorologo che, alla fine del tg della sera, certifichi come il giorno dopo ci sarà il sole oppure pioverà. Più che un’analisi, appare un caso di pre-emptive pump. Ovvero, l’applicazione della teoria dell’analista di Saxo Bank: le possibilità che le equities, soprattutto le più ballerine ed esposte a leverage come Tesla, abbiano finora sottostimato i rischi derivanti dalla crisi cinese cominciano a essere davvero alte.



Quindi, occorre “sostenerle”. Anche perché questo altro grafico mette in evidenza una dinamica che un veterano degli hedge fund come Eric Peters, CiO di One River Asset Management, giudica un unicum nella sua decennale carriera: il valore in dollari dei volumi di scambio di Tesla ha raggiunto un record assoluto, di fatto trascinando anche la volatilità al massimo da dieci anni a questa parte.

Per mettere la questione in prospettiva, basti pensare che in un giorno di trading sostenuto Amazon scambia 1,5-2 milioni di azioni. Bene, nei giorni di inizio febbraio che hanno visto il titolo di Elon Musk prima volare e poi precipitare nell’arco di quattro sedute, Tesla ha scambiato 60 milioni di titoli al giorno. “Penso che in termini nozionali, quelli siano state le ore di trading più trafficate per un singolo titolo nella storia di Wall Street”, scriveva Eric Peters nella sua nota settimanale agli investitori. Più che una mina vagante, una bomba a mano senza spoletta. Con cui si sta giocando a palla avvelenata. E quest’ultimo grafico spiega anche il perché: stando alla divisione di Quant Derivative Strategies sempre di Morgan Stanley, infatti, oggi non solo gli hedge funds sono esposti alla leva come mai prima d’ora, ma, soprattutto, i loro portfolio di investimento non sono mai stati così simili, quasi sovrapponibili.

Insomma, l’effetto di long strutturale garantito dalla Fed ha fatto in modo che i soggetti più aggressivi di mercato detenessero tutti gli stessi pochi titoli, una condizione che rischia di creare un enorme ingorgo in caso qualcosa andasse storto. Ovvero, la possibilità più che probabile che fondi diversi stiano trattando il medesimo titolo al medesimo momento. Se si innescasse un qualcosa che obbligasse a chiusure forzate di posizioni, l’effetto auto-alimentante da palla di neve che diventa valanga sarebbe assicurato. E, in prospettiva, la sell-off fatta detonare da Lehman Brothers sul rischio di controparte potrebbe apparire come una tempesta in un bicchiere d’acqua.

Perché allora Morgan Stanley ha azzardato così tanto sulla valutazione del target price di Tesla? Una risposta, più politica che finanziaria, arriva dall’ultima nomina presidenziale compiuta da Xi Jinping in persona, di cui vi ho già parlato, ma che ora giova più che mai ricordare. L’ex sindaco di Shanghai, Ying Yong, è stato infatti promosso a capo supremo del Partito comunista nella provincia di Hubei, epicentro dell’epidemia di coronavirus. Un decisionista, tanto che il primo atto è stato quello di imporre un coprifuoco pressoché totale dal sapore di legge marziale.

Interessante è però il fatto che prima della promozione, Ying Yong fosse stato l’uomo ingaggiato da Elon Musk per gestire l’immagine e gli interessi di Tesla in Cina durante la fase più delicata della crisi commerciale con gli Usa. E divenuto oggi un plenipotenziario con poteri assoluti, su diretta scelta del Presidente. Forse a Morgan Stanley si sono quindi posti questa semplice domanda: quando la Cina ricomincerà a macinare crescita e si dovrà decidere quali soggetti priorizzare nella riapertura degli stabilimenti e nella riattivazione operativa e infrastrutturale, Ying Yong si scorderà del suo ultimo, munifico datore di lavoro o adotterà il proverbiale occhio di riguardo?

L’ho scritto nell’articolo di ieri, lo ribadisco in quello di oggi. Attenzione, perché al netto di un’emergenza sanitaria che nessuno qui intende negare, minimizzare o addirittura ricondurre a scenari dietrologici, l’inazione totale dell’Europa di fronte alle grandi manovre poste in essere da Fed e Pboc rischia di risultare fatale. Gli equilibri stanno, giocoforza, mutando. E sono molti e a ritmo ormai quotidiano, gli indizi che ci fanno sospettare che qualcuno – a Pechino come a Washington – stia sfruttando in maniera palese il caos ingenerato dalla pandemia. Volete un esempio, l’ultimo di come sottotraccia si stiano riallineando equilibri che si pensavano mutati per sempre? Vi invito a leggere questo articolo pubblicato non più tardi del 15 febbraio scorso da Bloomberg e all’interno del quale si riportano le parole di Dan Brouillette, ministro dell’Energia statunitense: “Gazprom non sarà in grado di terminare la pipeline Nord Stream 2 di collegamento con la Germania, la conclusione del progetto subirà un lunghissimo ritardo perché Mosca non è in possesso della tecnologia necessaria”. E ancora: “È frustrante per noi americani vedere come la Germania e il resto dell’Europa tutta siano disposti a dipendere dalla Russia a livello energetico”.

Insomma, dove non sono arrivate le sanzioni che lo scorso dicembre hanno costretto la svizzera Allseas Group SA a recedere dal contratto, bloccando di fatto tutti i lavori infrastrutturali sottomarini, ora arriva il redde rationem rispetto alla capacità infrastrutturale e tecnologica russa. Ma non basta. Proprio ieri, Donald Trump ha nominato nuovo capo degli 007 statunitensi il controverso ex ambasciatore Usa in Germania, Richard Grenell, terminato immediatamente nel mirino del governo di Berlino fin dal suo insediamento, poiché si dichiarò pubblicamente a favore dei partiti populisti e anti-europeisti in seno all’Ue. Un qualcosa che, ai più, apparve un inaccettabile endorsement ad Alternative fur Deutschland da parte di un alto rappresentante di uno Stato estero. E ancora, attenzione alle prossime mosse della Germania su Huawei, poiché se per caso il Governo di Angela Merkel – come sembra – dovesse seguire l’esempio di Boris Johnson e aprire parzialmente la propria Rete alla collaborazione con Huawei sul 5G, gli Usa potrebbero mettere in campo l’opzione nucleare: ovvero, sanzioni sulle importazioni di automobili europee. Di fatto, li proverbiale chiodo nella bara della recessione assicurata dell’economia tedesca e dell’eurozona. Oltretutto, senza una Banca centrale degna di questo nome che stia approntando strumenti di reazione e difesa.

Guerra, insomma. Commerciale, diplomatica, energetica e finanziaria. E un ritorno del terrore nelle strade tedesche, questa volta declinato in odio razziale di estrema destra e non islamista, che porta con sé un timing decisamente sospetto. A ridosso, infatti, dello scandalo che ha visto dimissionari il neo-eletto governatore liberale della Turingia e il capo della Cdu in quel Lander, quest’ultimo reo di aver favorito l’elezione del primo attraverso un patto politico a livello locale con Alternative fur Deutschland. Angela Merkel in persona è intervenuta per bloccare ciò che la stampa tedesca ha unanimemente definito “uno scandalo senza precedenti”, ma, a stretto giro di posta, il partito centrista di governo ha dovuto prendere atto anche del passo indietro della stessa leader nazionale dei cristiano-democratici, Annegret Kramp-Karrenbauer. Insomma, un terremoto che rischia di minare alle fondamenta la tenuta politica della Cdu. E, quindi, dell’esecutivo. E che quanto accaduto ad Hanau rischia solo di accelerare e rendere di magnitudo maggiore. Dopo tanti radicalizzati sotto psicofarmaci, è giunta l’ora del cittadino della porta accanto – l’uomo qualunque che potrebbe proprio votare Cdu – tramutatosi in attentatore paranoico e xenofobo. Che caso…

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