C’è poco da fare: l’Occidente non capisce la Cina. La scorsa settimana ha infatti invaso i media la notizia del +18,3% del Pil nel primo trimestre, percentuale che si per sé non vuole dire assolutamente nulla. Ad esempio, nessuno ha detto che il consensus degli analisti si aspettava un +18,5%, stante la necessità di rimbalzo dalla tracciatura catacombale raggiunta durante la pandemia. E la questione principale non sta nel dato sul trimestre, fermatosi a +0,6% dal +2,6% dei tre mesi precedenti (quindi, in netto rallentamento) e divenuto così il secondo trend più debole in assoluto dalla crisi finanziaria del 2008-2009. No, la questione sta tutta in questo grafico, il vero e unico proxy da guardare quando si parla di Cina: la Banca centrale di Pechino ha drenato dal mercato 40,5 miliardi di yuan in fondi a un anno nel primo trimestre, chiaro segnale del perché quel dato apparentemente record del Pil sia stato in realtà minore delle aspettative.
Pechino sta proseguendo la sua politica di deleverage del sistema e, contemporaneamente, supportando la ripresa dell’economia con operazioni mirate, quasi chirurgiche. Il problema? L’impulso creditizio – il quale per un decennio ha mantenuto liquido e lubrificato un sistema finanziario globale talmente esposto alla leva da cadere ciclicamente in clamorose crisi di cash – sta continuando a diminuire, come di fatto confermato dall’andamento dell’indice benchmark cinese, quel CSI 300 che da febbraio, quando toccò il massimo a 13 anni, ha già perso il 15%. Le autorità, però, non hanno fatto un plissé. Nemmeno di fronte al rischio dello scontento di qualche milione di investitori retail.
La Cina ha una missione. E, apparentemente, nulla e nessuno pare in grado di distoglierla dal suo obiettivo di sostenibilità. Quantomeno, relativa. E questo nonostante sottotraccia stia andando in scena uno stress test potenzialmente più rischioso e sistemico dello stesso processo di drenaggio di liquidità. Questo grafico mostra la reazione dei bond di Huarong alla decisione delle tre sorelle del rating di porre sotto osservazione la sua valutazione creditizia, attualmente investment grade. Un bagno di sangue. Sia per la carta con scadenza 2022 che quella 2025 che per il bond perpetuo, sceso in area 72 centesimi sul dollaro.
Ma cos’è Huarong? Semplicemente, una delle società di debt management più grandi della Cina. E addirittura, Ling Huawei, managing editor di Caixin Media e Caixin Weekly, ha ventilato la possibilità di una sua bancarotta. Quotata a Hong Kong nel 2015 dopo un Ipo da 2,5 miliardi di dollari, Huarong ha un forte valore simbolico per la Cina, poiché è una delle quattro entità a controllo statale create nel 1999 proprio per ripulire dai debiti in sofferenza un sistema bancario sull’orlo dell’esplosione. Ironia della sorte, oggi potrebbero essere proprio i debiti a mandarla zampe all’aria. Sicuri che sia così? Una cosa è certa: le liabilities ci sono. Eccome. E la loro natura potrebbe però paradossalmente risultare strategica per Xi Jinping, quasi a voler ampliare al settore creditizio la purga in atto verso quei giganti tech con troppa propensione allo sconfinamento nel ramo finanziario e del credito al consumo.
I guai di Huarong, infatti, sono nati da quando il management ha deviato dal suo mandato statutario originale di gestione del bad debt, mettendosi a operare in trading su securities, trusts e altri investimenti opachi. Pechino lascerà fallire Huarong, in ossequio alla nuova linea di austerity monetaria del Partito? Nemmeno per sogno. Non fosse altro perché il gigante in questione, insieme alle sue sussidiarie, sovrintende un outstanding di bonds offshore e domestici per un controvalore di 42 miliardi di dollari, il 41% dei quali andrà a maturazione entro la fine del 2022. Ancora una volta, Pechino vuole inviare un segnale. Esattamente come ha fatto con la scure abbattuta su Alibaba e con l’accelerazione sullo yuan digitale. Quale?
Per capirlo, occorre mettere in fila alcuni nomi evocativi: SoftBank-options, Robinhood Melvin-GME, Greensill, Archegos, SPACs, ARKK, TAN e Cannabis (quella legale, ovviamente). Sono tutte aziende/fondi o comparti andati zampe all’aria o comunque incorsi in perdite solo dal 1 settembre 2020 a oggi a causa di un minimo comun denominatore: l’eccesso di leverage. E se toccasse a Haurong, adesso? Come reagirebbe un mondo che soltanto venerdì scorso ha salutato questa dinamica: esattamente un anno fa, il 15 aprile 2020, il mercato dei junk bond mondiali era nel totale panico da pandemia e il loro rendimento medio era quello segnalato da quel picco in area 8,5%. Bene, oggi siamo quasi al minimo storico: 2,9%. Su bond spazzatura.
Se per caso Huarong dovesse saltare o anche soltanto trovarsi costretta a rinviare o ristrutturare un coupon in scadenza, cosa accadrebbe a quello yield che sovrintende qualche centinaio di miliardi di pura immondizia che prezza come un Treasury Usa a 30 anni senza Fed a comprimerne il premio (nel 2018, la media era del 3,10% per la carta statunitense su quella scadenza)? L’apocalisse. Per ora non accadrà. Huarong, il 16 aprile, ha confermato tramite Bloomberg che ha accantonato in disponibilità tutti i fondi necessari per pagare i 600 milioni per il bond offshore in scadenza il 27 aprile. Un portavoce ha inoltre confermato che «l’azienda dispone di adeguata liquidità per coprire tutti gli oneri in maturazione». Ma non solo: «Huarong International continuerà le sue operazioni in maniera stabile e conforme, basandosi sul nuovo piano di sviluppo del business». Nuovo piano, definizione che implica l’accantonamento del vecchio. Magari anche del management che con le sue spericolatezze finanziarie ha creato quel brutto incidente sui rendimenti, portando la situazione all’attenzione delle agenzie di rating.
Pechino, intesa come Partito, avrebbe ottenuto due risultati in uno: normalizzare e ritornare in totale controllo di un gigante statale che aveva preso una strada troppo di mercato, esattamente come il comparto tech e inviare contemporaneamente un segnale chiaro agli Usa. Attenzione, il detonatore di una potenziale, nuova e devastante crisi finanziaria è in mano nostra.
Perché questo timing? Perché l’annuale meeting dello US Office of the Director of National Intelligence (ODNI) ha appena reso noto e pubblicato il suo Threat Assessment Report nel quale la Cina viene definita «il nemico e la minaccia numero uno, un soggetto che pone una sfida senza precedenti al ruolo di superpotenza globale degli Stati Uniti». Per capirci, l’organismo in questione rappresenta il volto pubblico e presentabile del Deep State. L’America ha paura, probabilmente anche per questo alza la voce con un proxy di conflitto come la Russia, ma evita gli attacchi diretti a Pechino. La quale, tra l’altro, ha immediatamente rispedito al mittente, bollandola come inaccettabile, la risoluzione bilaterale Usa-Giappone di contrasto congiunto all’impatto dell’influenza cinese nell’area indo-pacifica, arrivando a scomodare persino il principio della deterrenza nucleare.
E mentre Washington pare agitarsi in cerca di una direzione, Pechino gioca al gatto con il topo: questo ultimo grafico mostra come, per il quarto mese di fila, anche a febbraio Pechino abbia acquistato debito statunitense, arrivando a un controvalore totale di detenzione al massimo dal luglio 2019 e segnando la striscia di acquisto consecutiva più lunga dal 2017. Altro segnale, chiaro. Lo ripeto, finché ci faremo impressionare – senza saperlo leggere, quantomeno scorporato – da un dato ibrido ma formalmente eclatante come quel +18,3% del Pil, la Cina non la capiremo mai. E saremo destinati a esserne vittime, anziché partner.
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