Ultimamente sto leggendo cose veramente bizzarre. Tipo che il Russiagate all’italiana cui stiamo assistendo sarebbe stato orchestrato da francesi e tedeschi per colpire l’azionista di maggioranza della coalizione di governo, il ministro Matteo Salvini: a che pro, scusate? Non è dato a sapersi. Più che altro, basta utilizzare un po’ di logica e riporre nel cassetto gli occhiali offuscati dell’ideologia e della germanofobia patologica per rendersi conto di due cose. Primo, con la clamorosa sconfitta in sede Ue, dopo i proclami rivoluzionari pre-elettorali di fine maggio, l’inquilino del Viminale si è già colpito da solo, condannandosi all’irrilevanza continentale in cambio dell’egemonia interna. Egemonia che, queste ore lo testimoniano, sta sostanziandosi in una guerriglia tanto logorante, quanto patetica fra alleati, un tira e molla continuo. Secondo, se davvero ci fosse la manina tedesca o francese dietro il caso Metropol, la questione sarebbe di lungo corso temporale (iniziata cioè operativamente già lo scorso autunno, se non prima come preparazione) e porrebbe un paio di quesiti seri.



Primo, occorre prendere atto che la sicurezza interna russa è stata bucata dai servizi di Germania o Francia (o insieme, magari), capaci di dar vita a un’operazione sotto copertura con tanto di intercettazione ambientale nella sala colazioni di un albergo che è, di fatto, iper-sorvegliato, visto il livello medio della sua clientela e del Paese di cui parliamo. Avendo poi il presidente russo un passato nel Kgb e un’ossessione stile Ddr per la sicurezza interna, penso che sarebbero già rotolate decine di teste ai vertici dell’Fsb. Tutto senza colpo ferire? Secondo, per quale ragione Parigi e Berlino avrebbero dovuto sfidare in quel modo un Paese sì antagonista in logica Nato, ma anche alleato commerciale di quella caratura, non fosse altro per il profilo di fornitore energetico all’Europa che ricopre Mosca? In odio a Salvini e al Governo dell’Italia, visto come chissà quale spauracchio in sede Ue?



Scusate, avete notato la figura da cioccolataio che il cosiddetto “Governo del cambiamento” ha rimediato a Bruxelles e Strasburgo, conclusa con la ciliegina dell’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione, senza bisogno di alcun complotto esterno o trama parallela? Serviva un’operazione stile James Bond, a vostro modo di vedere? Mettiamo che sia andata così, mettiamo che Francia e Germania abbiano fatto esplodere il caso a orologeria per far spaventare i 5 Stelle e farli votare, in maniera determinante, a favore della candidata dell’asse renano ed evitare uno stallo pericolosissimo e senza precedenti in sede Ue: sapevano forse fino dallo scorso autunno che dopo il voto di fine maggio si sarebbe arrivati a un impasse tale da dover mettere nel cassetto un ricatto pret-a-porter di questo livello, addirittura confezionato in terra nemica?



Io credo ai complotti, anche se preferisco chiamarli “Stato parallelo”, ma qui siamo davvero oltre. Siamo all’arrampicata libera, al free climbing sui vetri della realtà per evitare di vedere polverizzate convinzioni, speranze e proclami dei mesi passati. E poi, ribaltate la prospettiva: a chi avrebbe invece fatto comodo che l’Ue si impantanasse totalmente con un “no” a firma italiana alla candidatura di Ursula von der Leyen? Davvero poi la Germania, che sta sfidando da mesi ira, sanzioni e ricatti de Dipartimento di Stato Usa sul gasdotto Nord Stream 2, avrebbe colpito al cuore sicuritario l’alleato energetico russo, solo per ridimensionare il potere di Salvini? Oltretutto, potendo tranquillamente mettere in difficoltà il nostro Paese attraverso il ricatto della procedura di infrazione e della violazione dei patti sui conti pubblici in sede di Commissione uscente? O, magari, mettendo un bastone fra le ruote al giorno a Mario Draghi all’interno del board Bce attraverso gli esponenti “falchi”.

Troppo palese e smaccato, troppo grande l’impronta digitale che sarebbe rimasta impressa sulla scena? Forse. Ma perché allora far uscire proprio adesso – e non prima del voto europeo – quegli audio, con i sovranisti ridotti all’irrilevanza in sede Ue e il “pericolo” ormai scongiurato? Ora, io capisco essere un fan – quasi un ultrà, in certi casi specifici – di questo Governo o, quantomeno, di una sua componente, ma occorrerebbe sempre fermarsi un passo prima del ridicolo conclamato. Quantomeno per decenza verso se stessi, se non verso chi ti legge. Altrimenti, avanti di questo passo, toccherebbe pensare a un mega-complotto che veda unite in una diabolica dissimulazione Russia (che offre l’imbeccata, crea i presupposti della trappola e lascia servizi esteri operate sul suo territorio), Francia e Germania contro l’Italia. Vi pare credibile? E perché, poi? Perché l’Italia è troppo prona verso gli Usa?

Parliamo della stessa Italia che non più tardi dello scorso marzo ha firmato il memorandum economico-commerciale con la Cina, mi pare. E che sta bloccando, di fatto, il Tap, progetto infrastrutturale energetico che è in cima alle priorità del Dipartimento di Stato Usa. Ancora una volta, poi, mi pare che il nulla in cui si è sostanziata la cosiddetta “ondata sovranista” dopo le europee, senza che ci fosse stato alcun bisogno di scandali o complotti, ridimensioni l’intera vicenda e mandi in soffitta ogni possibile dietrologia. Volete poi la riprova del fatto che la Germania non abbia alcun potere negoziale così alto, al di fuori dall’Ue, da permettersi una sfida simile alla Russia?

Guardate questo grafico, il quale mette in prospettiva il valore reale del “mostro finanziario” che qualcuno evoca continuamente parlando di Berlino e tratteggiando il Sol dell’avvenire sovranista: il market cap dell’intero azionario tedesco oggi è attorno ai 2 triliardi di dollari, esattamente 2,06. Bastano Amazon e Microsoft per pareggiarlo. Nanismo allo stato puro. E con Deutsche Bank costretta, fra poco, a vendere a saldo qualsiasi asset faccia fatica a prezzare, pur di sopravvivere e non doverselo tenere a bilancio nella bad bank.

Sapete cosa conta davvero, invece? Questi altri due grafici. Ovvero, mentre la Cina nel mese di maggio scorso vendeva altri 3 miliardi di debito pubblico Usa, portando il suo totale al minimo da maggio 2017, ecco che qualcuno cominciava a comprare. E con il badile, come mostra il primo grafico: il Regno Unito, ancora guidato formalmente da Theresa May e in cerca di una via d’uscita dal caos Brexit, acquistava Treasuries per 22,3 miliardi di dollari quel mese, portando il suo totale di detenzione a 323,1 miliardi. Maggio 2019: stranamente, il mese precedente alla visita di Stato ufficiale di Donald Trump a Londra. Dove, sempre guarda caso, il Presidente Usa difese a spada tratta il Brexit e l’allora governo May, spronandolo – come ricorderete – ad andarsene dall’Ue senza accordo e senza pagare una sterlina di penale.

Fu Theresa May a decidere quegli acquisti di Treasuries come cadeau per l’ospite in arrivo oppure chi già sapeva che il Governo sarebbe cambiato dopo le europee e, con esso, anche la musica a Downing Street, visto l’inquilino dalla bionda chioma in arrivo? Guarda caso, nelle scorse settimane, uno scandalo sull’asse Londra-Washington faceva il paio con quello del Russiagate italiano: le rivelazioni riguardo i memo riservati dell’ambasciatore britannico negli Usa, esplicitamente e irritualmente irrispettosi nei confronti di quel presidente Usa che ne garantiva le credenziali. Boom, tempo una settimana scarsa e le dimissioni della feluca erano sul tavolo del Foreign Office e, in copia e per conoscenza, su quello dello Studio Ovale. Risultato ottenuto, con somma gioia di Boris Johnson, uno che non ha la minima idea su chi abbia imposto la cellophanatura alle aringhe britanniche, ma sa benissimo su quali alleati fare leva, pur di ottenere ciò che vuole. Ovvero, un bello showdown con l’Ue che gli garantisca, esattamente come a tutti, un intervento massiccio di supporto della Bank of England, perché – al netto della propaganda a suon di panzane dei sovranisti – l’unico risultato concreto finora sortito dal disastro in cui si è sostanziato il processo di Brexit, è una più che probabile entrata del Regno Unito in recessione anticipata, come rilanciava ieri Bloomberg.

E poi, guarda caso, a rinsaldare la special relationship arriva una bella crisi nello stretto di Hormuz con sequestro da parte dei pasdaran iraniani di una petroliera britannica: e l’immediato rafforzamento dell’asse Londra-Washington su uno dei fronti più caldi a livello geopolitico. L’Europa? Muta al riguardo, ovviamente. Non fosse altro perché, nel silenzio generale dei media, furbescamente proprio nei giorni dell’elezione di Ursula von der Leyen alla Commissione, Mosca faceva sapere che avrebbe potuto appoggiarsi al sistema alternativo di pagamento messo in funzione proprio dall’Ue per bypassare Swift e con esso le sanzioni economiche statunitensi contro l’Iran. Qui nessuno ne ha parlato, a Londra e Washington invece sì. E parecchio.

Il secondo grafico è ancora più interessante. Sempre i dati ufficiali del Tic statunitensi relativi al mese di maggio, mostrano come i detentori esteri abbiano venduto titoli azionari statunitensi per il 13mo mese di fila, nuovo record assoluto: in totale, negli ultimi 13 mesi, gli investitori stranieri hanno scaricato equities statunitensi per un controvalore di 215 miliardi di dollari. Non noccioline. Reazione di Wall Street? La stessa dei rendimento dei titoli Usa alle vendite cinese di Treasuries: neppure un plissé. Anzi, come ha testimoniato la cronaca recente, due indici su tre del mercato Usa hanno appena frantumato record storici al rialzo, in primis lo Standard&Poor’s 500 che finalmente ha frantumato quota 3mila punti.

I prossimi aggiornamenti dei dati Tic ora sono previsti per l’inizio dei settembre: cosa ci diranno? Quasi certamente che la svendita straniera è continuata, in perfetta contemporanea con i rialzi record di Wall Street. E questo cosa ci dice? Semplicemente che i buybacks azionari delle multinazionali Usa, quelle che da sole o al massimo accoppiate pareggiano l’intero market cap della Borsa tedesca, sono a forza quattro, ai massimi assoluti. Ma non possono durare, le previsioni di utili già per la seconda metà di quest’anno parlano chiaro, certificate dalle stesse trimestrali pubblicate i questi giorni. Siamo al redde rationem, il primo, quello più strettamente legato alla sopravvivenza finanziaria: la settimana prossima, il Fomc della Fed sarà chiamato a decidere sul taglio dei tassi, per l’esattezza il 30 e 31 luglio. E per quanto la stampa minimizzi, i grafici parlano chiaro: 50 punti base di taglio potrebbero non essere affatto sufficienti per le metriche di trend già prezzate, quindi se ci si limiterà a un quarto di punto, potrebbe essere sell-off. Quanto mai voluta e controllata, tanto per liberare la Fed post-estiva da ogni vincolo. Magari, persino dall’ingombrante presidenza di Jerome Powell stesso.

Siamo a un punto di snodo epocale, uno di quei momenti che si vivono una volta ogni 100 anni e che potrebbero vedere l’Europa, intesa come mercato comune e spazio comune di libero commercio, player di livello mondiale che opera fra pari, messa drammaticamente all’angolo, strutturalmente vassallata a interessi stranieri, a lei antitetici e anti-storici. Ma noi stiamo qui a cercare manine francesi o tedesche nel Russiagate di casa nostra, tanto per non ammettere l’evidenza. Forse – c’è da sperarlo – solo per ingenuità.