Che i destini di Italia e Francia siano legati in maniera indissolubile, lo mostra quanto accaduto a La Repubblica. Qualcosa come 100.000 copie dell’inserto economico mandate al macero dal direttore, perché contenenti un articolo sgradito proprio relativo ai rapporti transalpini. Detto fatto, sfiducia del comitato di redazione al numero uno del quotidiano di casa Agnelli. Ma tutto prosegue, l’importante è mantenere la linea. E dare la colpa al Cremlino anche per le buche nelle strade di Milano e Roma.
Il problema però è reale. E i cammini paralleli dei due Paesi cominciano a parlare in maniera chiara di quanto potrà accadere da qui all’estate, quando le elezioni europee avranno sancito i nuovi equilibri a Bruxelles. Pensate che Giorgia Meloni sia impazzita di colpo, quantomeno stando ai retroscena che la vedrebbero pronta a sacrificare l’ex amica Ursula Von der Leyen per una candidatura di Mario Draghi che schermi l’Italia dal ritorno prepotente dei falchi? No. Per una volta, sta semplicemente facendo l’interesse del Paese. Alleluja. Perché mentre qui prendiamo per buone le ricostruzioni da Alice nel Paese delle meraviglie del Mef, in Francia la discussione sulla legge finanziaria sta letteralmente esplodendo.
La ragione? Un deficit ancora peggiore di quello già rivisto al rialzo solo tre settimane fa. Per il 2024, oggi si parla di 5-5,1%. Ovvero, oltre 10 miliardi da reperire entro l’autunno. Perché le previsioni e le conseguenti coperture facevano riferimento a un rapporto deficit/Pil del 4,4%. E cos’ha proposto mercoledì il capogruppo dei socialisti all’Assemblea Nazionale, Boris Vallaud? Di finanziare la manovra correttiva con una tassa ah hoc sui super-profitti. Di fatto, una patrimoniale. Ovviamente, il Governo Macron è inorridito. Ma ora il problema si fa serio: da qui a due mesi, occorre trovare una soluzione. O, quantomeno, una versione spendibile verso l’opinione pubblica. Prima che questa si rechi alle urne. Anche perché l’ultimo dato commerciale parla chiaro: nel mese di febbraio, la Francia ha esportato beni per 50,3 miliardi di euro, ma ne ha importati per 56,3. Un ulteriore deficit che va a pesare sul conto economico di un Paese che, nonostante tutti fingano di non accorgersene, ha detto addio da tempo alla doppia cifra nel rapporto debito/Pil. E viaggia saldamente sopra la linea del triple digit.
Ora date un’occhiata a questa immagine: si tratta della copertina di Time Magazine, contenente una lunga e sdraiatissima intervista a Emmanuel Macron.
Risale al novembre 2017. Il titolo diceva tutto sui desiderata Usa. Ma è il sottotitolo a interessarci: Se solo potesse guidare la Francia. Fast forward all’oggi. Interpellato sotto anonimato da FranceNews24, un amico del Presidente si sarebbe fatto sfuggire il tasso di irritazione dell’inquilino dell’Eliseo di fronte alle reazioni della stampa tedesca e anglosassone per l’esplosione del deficit: Un qualcosa che rischia di minare il suo profilo di credibilità internazionale. E che trova intollerabile. Emmanuel Macron ha l’ossessione di quella vecchia copertina di Time Magazine. E un’unica priorità: essere incoronato referente europeo dalla Casa Bianca. Punto.
E in effetti, tanta dedizione ha pagato. E paga. Ciò che infatti viene ancora meno reso noto in Italia, nonostante la Francia sia pianeta a noi molto più vicino dell’onnipresente America, è il fatto che l’8 aprile scorso TotalEnergies abbia comunicato ufficialmente quanto segue: l’aumento tramite un’acquisizione strategica della presenza sul mercato Lng statunitense, garantendosi il 20% mancante alla totalità di controllo dello shale gas play Eagle Ford in Texas.
Tradotto,il grande business del gas liquefatto, quello che tramite le demenziali sanzioni europee alla Russia ha tramutato gli Usa nel primo esportatore al mondo, ora vede la Francia a braccetto con Zio Sam. Tradotto, l’atlantismo parossistico dell’Eliseo quantomeno ha ricevuto un tornaconto economico, commerciale e geo-strategico. E non da poco. L’Italia, invece? Un bacio in fronte. Mentre Intel apre fabbriche per i propri microchip in Polonia e Germania e dice addio ai 4,5 miliardi di investimento in un primo tempo previsti nel veronese.
Ora, tirando le somme di un quadro simile, all’interno del quale l’invio al macero delle 100.000 copie di Affari e Finanza travalica il mero interesse strategico degli Agnelli in Francia tramite Stellantis, capite perché d’ora in poi uno dei proxy del nostro stato di salute non dovrà più essere lo spread ma la quotazione di titoli come Leonardo e Iveco? Capite quale interesse strategico sta muovendo le scelte – apparentemente bipolari ed epilettiche – dell’Eliseo e quale potrebbe essere il ruolo della Germania nel rinsaldarsi dei nuovi equilibri post-voto?
In Francia, tutti i telegiornali e i quotidiani stanno letteralmente grigliando Presidente e Premier sulla questione del deficit. Qui la conferenza stampa del ministro Giorgetti sul Def è passata pressoché indifferente, una delle tante notizie del tg. Un riempitivo. Ma è proprio lo spread informativo fra i nostri due Paesi su un tema simile, esiziale rispetto ai nuovi parametri del Patto di stabilità, a doverci far preoccupare: Emmanuel Macron è entrato in modalità Napoleone 2.0 e quella vecchia copertina del Time Magazine deve ricordarcelo chiaro. Washington lo ha benedetto una seconda volta, dopo aver ridimensionato la Germania post-Merkel con svolta green e sanzioni. Emmanuel Macron ha aperto il suo varco. Senza bisogno di baci in fronte. Ma con una fetta del business energetico del futuro, alla faccia di Esg e transizioni ridicole e più o meno verdi, destinate a finire del dimenticatoio insieme alla titolare di Green New Deal e relativa agenda. Chiaramente, la Francia ora cercherà un nuovo asse renano con la Germania. La quale sta sì affrontando una crisi industriale senza precedenti, proprio a causa delle tempistiche di transizione suicide imposte dalla sua connazionale a capo dell’Ue. Ma ora vede i primi segnali di ripresa, ad esempio un dato sulla produzione industriale di marzo assolutamente da boom.
Ora tutto potrebbe passare dalla Bce, soprattutto dopo il dato inflazionistico statunitense che ha spostato la prezzatura del primo taglio dei tassi da settembre a novembre. Di fatto, al massimo due interventi della Fed al ribasso nel 2024. E non tre come si sperava. Addirittura, dopo la pubblicazione del dato CPI e la reazione da sprofondo dei futures di Wall Street, è stato il Presidente Joe Biden a prendere la parola e garantire almeno un taglio del costo del denaro entro la fine dell’anno. Assolutamente irrituale. Ma nessuno ha nulla da ridire al riguardo, mica si tratta di Donald Trump che strapazzava Jerome Powell prima di Jackson Hole cinque anni fa. D’altronde, a novembre si vota anche negli Usa. E tutti fanno il loro interesse. Tutti. Tranne l’Italia, apparentemente. Dove si parla di ogni idiozia possibile, tranne che della dura realtà. Pessima strategia. Meglio perdere qualche voto, piuttosto che le alleanze per i prossimi 4 anni.
A questo punto, avanti con l’ipotesi Draghi. L’unica che può garantire una Waterloo al Napoleone in sedicesimi. E attenti, perché alla Bce c’è una francese. Non sia mai che torni in auge il tetto alle detenzioni di debito sovrano per banche e assicurazioni. O, magari, qualche magheggio sui tempi dell’uscita dal reinvestimento titoli del Pepp.
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