Come volevasi dimostrare, qualcosa di molto serio e profondo scricchiola. Dopo settimane di entusiasmo per un accordo scritto sull’acqua e, di fatto, inesistente, Donald Trump è tornato ai toni pessimistici e alle minacce verso Pechino: se non si arriva a un compromesso sul commercio, la Cina dovrà affrontare tariffe ancora più alte. Di più, in quasi contemporanea con la dichiarazione dell’inquilino della Casa Bianca, il Senato Usa dava il via libera a una mozione bipartisan in sostegno alle proteste a Hong Kong, addirittura arrivando a chiedere una revisione annuale del grado di autonomia dell’ex colonia britannica da Pechino, una sorta di cordone sanitario internazionale in difesa del suo special status. Insomma, ennesimo e pesante stop-and-go ed ennesimo materiale di pura propaganda politica destinato, paradossalmente, a fornire benzina ai mercati. I quali, ormai è palese, si basano su tre capisaldi: buybacks strutturali, sostegno della Fed per un Qe sistemico e senza fine e short squeezes, ovvero chiusura forzata di posizioni ribassiste e conseguenti acquisti automatici di massa ad alimentare i rialzi, in abbinata con il classico acquisto sui minimi.



Basta dare un’occhiata agli ultimi due, tre trimestri a Wall Street: il copione è quantomeno consolidato. E le notizie – vere, false, verosimili – sono il vero e proprio collante di quei tre elementi strutturali di sostegno: prima quella positiva, poi la smentita, poi il rumors non confermato. E gli algoritmi impazziscono, disorientati da segnali troppo contrastanti fra loro e troppo consequenziali temporalmente su breve termine per essere anticipati o decodificati: seppur nella logica destabilizzante e poco edificante della dissimulazione, la rivincita dell’uomo sulla macchina. Ma i mercati sono una giostra, un casinò. La fuori, tutt’intorno, c’è il mondo reale. Il quale, stranamente, da qualche giorno vede le strade e le piazze iraniane percorse da proteste contro il governo Rouhani per l’aumento del prezzo del carburante, deciso dall’esecutivo in risposta proprio alle sanzioni Usa sul petrolio che stanno martoriando le entrate fiscali. Esattamente ciò che Washington cercava, al netto delle quote di mercato e delle logiche dell’Opec. Contemporaneamente, il grande nemico di Teheran, l’Arabia Saudita, sta preparandosi alla quotazione sulla Borsa di Ryad del 3% di Aramco, il gigante petrolifero statale: tappe forzate, operazione che dovrebbe vedere la luce già a dicembre.



Ricordate cosa vi dissi quando fu annunciata quella che veniva definita l’Ipo del secolo? Che c’era il forte rischio che questa scelta nascondesse una necessità tutt’altro che positiva per il Regno: ovvero, quella di sbarcare sul mercato in pieno clima di sfiducia dopo il forfait di WeWork e i conti martoriati di SoftBank per una ragione tanto semplice, quanto rivelatrice di debolezza. Detto brutalmente, il bisogno di denaro liquido che entri subito nelle casse statali per tamponare il deficit creato da un prezzo del barile che non si schioda da valutazioni minime. E, comunque, insufficienti al breakeven fiscale. Stesso destino, sia per Ryad che per Teheran: fare i conti, dopo decenni di regime del petrodollaro, con il lato oscuro della dipendenza da oro nero.



Il problema è che a confermare la mia tesi, nell’arco di tre giorni a cavallo dello scorso weekend, ci ha pensato qualcuno decisamente più addentro del sottoscritto in certe materie, oltre a un paio di decisioni degli stessi sauditi che paiono tradire sempre maggiore tensione. Intervistato dalla Cnbc, il generale David Petraeus, ex capo della Cia, non ha infatti soltanto dichiarato chiaro e tondo che l’Ipo di Aramco deve per forza andare bene, ma, senza troppi giri di parole, ha definito l’operazione e il suo timing “una possibile scorciatoia posta in essere da un regime sotto stress finanziario. Gradualmente, l’Arabia Saudita sta terminando le proprie riserve e ha necessità di denaro per finanziare le riforme contenute nel piano Vision 2030 del principe bin Salman”.

Cos’altro? In quasi perfetta contemporanea con le parole di Petraeus, la stessa Aramco si è vista costretta a rinunciare alle proprie pretese e a fissare il range di prezzo per l’Ipo fra 1,6 e 1,7 triliardi di dollari, ovvero al di sotto di quei 2 triliardi per settimane rivendicati come obiettivo non negoziabile dal principe Mohammed bin Salman in persona. E attenzione, perché c’è dell’altro. Primo, il range fissato dal 40% degli investitori professionali interpellati al riguardo da Bloomberg è infatti compreso fra 1,2 e 1,5 triliardi di dollari, quindi nella parte più bassa della forchetta rispetto a quella decisa da Ryad. Sintomo che dall’estero si sta tirando sul prezzo, negoziando in stile suk? Non proprio. Perché come mostra questo grafico, l’Ipo di Aramco rappresenta formalmente appunto il Sacro Graal di tutti i collocamenti, destinata sulla carta a stracciare anche il precedente record fissato dall’Ipo di Alibaba nel 2014 con i suoi oltre 25 miliardi di raccolta pubblica.

Qualcosa non va. Tanto più che, comunicando il proprio prezzo, Aramco ha anche reso noto che non intende più utilizzare la cosiddetta Rule 144A, ovvero non intende quotarsi negli Stati Uniti, rendendo così negoziabili Oltreoceano i propri titoli sul mercato.

Secondo, a conferma del clima poco favorevole che si respira al di fuori del Regno, domenica scorsa Aramco ha cancellato i due roadshow pre-Ipo previsti a Londra e New York, oltre che quelli di minore impatto previsti in Canada, Francia e Germania: di colpo e limitandosi a citare come giustificazione “l’eccessivo accumularsi di incertezze”. Un po’ vago per un collocamento destinato a sfondare tutti i record e inteso come irresistibile per gli investitori di tutto il mondo. Terzo, la Sama, l’autorità monetaria saudita, con mossa senza precedenti ha annunciato l’intenzione di raddoppiare il controvalore di denaro che è pronta a prestare agli investitori solo interni per finanziare la loro partecipazione al collocamento. Ovvero, l’Ipo del secolo sta diventando una questione tutta nazionale.

Per capirci, l’autorità monetaria del Regno non solo è pronta a offrire il doppio di quanto solitamente pone in prestito a chi intende investire, ma lo fa unicamente verso soggetti sauditi. Delle due, l’una: o quest’Ipo è una farsa e si intende rinviarla all’ultimo momento, blindando però i titoli attraverso pre-acquisti sul book operati tutti da sauditi oppure oltre alla fame disperata di denaro di Aramco occorre unire anche l’aggravante di un’incipiente scarsezza di liquidità residua e potenziale del mercato. Insomma, se l’po andrà avanti, il collocamento rischia di essere ben al di sotto del range di prezzo fissato da Ryad. E molto più vicino a quello indicato dal consensus degli investitori interpellati da Bloomberg.

Non vi pare strano che in un contesto simile e con l’Opec che è stata costretta ad ammettere come lo sviluppo dell’auto elettrica a livello globale farà scendere il consumo di petrolio dai 104,5 barili al giorno del 2018 ai 103,9 nel 2023, in Iran proprio sul prezzo della benzina si inneschi l’ennesima rivolta popolare destinata a scuotere alle fondamenta lo status quo a Teheran? Qualcuno vuole spostare il focus mediorientale? Oppure qualcuno vuole operare in maniera parallela sul mercato del petrolio per stimolare uno shock inflazionistico ed energetico, dopo lo “stress test” di settembre con l’attacco proprio contro le raffinerie di Aramco, al fine di innescare uno schianto finanziario controllato e tutto politico?

Per Julian Lee di Bloomberg, “il momento giusto per l’Ipo di Aramco era quando gli investitori del mondo sarebbero stati pronti a tutto pur di ottenere una fetta della torta. Venti anni fa, la gente si sarebbe accoltellata alla schiena pur di far parte dell’operazione. Oggi vendere, invece, appare decisamente più duro e difficile”. Perché allora, dopo un ventennio di attesa, scegliere proprio questo momento per “svendere” quel 3% di quota azionaria, incappando in meno di due settimane in un flop e una criticità dopo l’altra? E perché fare un gioco così scontato, portando mezzo mondo a convincersi che la ratio dell’intera vicenda sia legata a una disperata necessità di soldi, un po’ come sanguinare in una piscina di squali? Parliamo del Regno saudita, non di un Repubblica centrafricana e del suo satrapo-santone di turno.

Cosa si sta preparando, cosa sta bollendo in pentola in Medio Oriente per l’anno delle presidenziali Usa? La scelta proprio di Donald Trump e del Dipartimento di Stato di dichiarare non più illegali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, di fatto un assist all’amico Bibi Netanyahu, uscito sconfitto dalla formazione di un nuovo governo ma ancora in sella (e, soprattutto, a piede libero), sottende altro, vista anche la sua contemporaneità con i casi saudita e soprattutto iraniano? Troppe coincidenze, cari lettori. E come sapete, io non credo alle coincidenze. Anzi, le coincidenze proprio non esistono. Semplicemente, nulla è come appare.

P.S.: Attenzione al Libano. Ormai è questione di settimane – poche, oltretutto – prima che la situazione precipiti. E quello sarà il proxy di tutti i proxies. Flussi migratori, avendo 2 milioni di profughi su 4,5 di abitanti, in testa. I mercati stanno già prezzando. A livello venezuelano.