Quando a metà dello scorso mese di novembre il tasso di risparmio degli statunitensi come percentuale sul reddito personale toccò il 3,1%, scattò un segnale di allarme. Quel dato era infatti solo di un decimale superiore al minimo storico assoluto del 3%. Inoltre, l’inflazione correva e pareva ancora non aver raggiunto il picco. Alle porte, poi, c’erano le festività e la stagione dello shopping per antonomasia.
In compenso, l’indebitamento su carte di credito era a livelli record. Tradotto, la sbornia di sussidi pandemici che aveva dopato i redditi grazie al Covid era finita. Ma non basta. Perché al netto dello stop al Bengodi degli assegni federali, l’americano medio per compensare l’erosione salariale imposta dal progressivo e drastico aumento dei prezzi stava pesantemente mettendo mano ai propri risparmi. Un mix devastante, quantomeno se destinato a divenire di medio-lungo termine. E oggi?
Questa immagine parla da sola. Solo nel mese di novembre, gli americani si sono caricati sulle spalle altri 27,9 miliardi di debito, portando l’outstanding totale a qualcosa come 4,76 trilioni di dollari.
Ma se vogliamo prendere in esame solo il revolving american dream – versione molto meno ribelle e romantica del runaway american dream cantato da Bruce Springsteen – legato alle esiziali e faustiane carte di credito, sempre a novembre l’aumento è stato di 16,4 miliardi, un +16,9% che porta l’outstanding totale di quella schiavitù di plastica a 1,19 trilioni di dollari. Il tutto a fronte di tassi di interesse che, se a novembre avevano già toccato il record del 17,87%, oggi vedono l’APR su quel debito revolving al massimo storico del 19,59%. E il tasso di risparmio in percentuale al reddito disponibile? Avrà abbattuto al ribasso la quota di minimo storico del 3%, quella intravista e tanto temuta solo due mesi fa? Sì. E di molto, visto che oggi è al 2,40%. Tradotto, serve un nuovo programma di sussidi e sostegni a pioggia al reddito. E una Fed che si fermi. Subito. Oppure qualcuno vuole scatenare il caos nelle strade d’America? Perché soltanto la malafede può ormai leggere in quella crescita di prestiti e indebitamento un segnale di forza per i consumi e quindi per l’economia statunitense nel suo insieme: è solo una corsa verso il baratro. Di massa.
Casualmente, da ogni vano riconducibile a rogiti di Joe Biden spuntano documenti classificati. Come dire: caro Presidente, se vuoi davvero tentare la rielezione nel 2024, occorre che ora tu faccia qualcosa di enormemente popolare per riconquistare consenso. E magari evitare l’impeachment. Una sorta di operazione Lauro all’ennesima potenza, stante un Pil statunitense che – giova sempre ricordarlo – dipende al 70% dai consumi personali. Ma per attivare le stamperie, sia della Fed che del Treasury, occorre un’emergenza che giustifichi nuovo deficit. Tanto più che alle porte c’è il raggiungimento del tetto del debito, quindi l’esatto opposto di un’ipotesi di grandeur salariale. Quantomeno per i dipendenti federali. Insomma, in America sta forse per succedere qualcosa di decisamente inaspettato e terribilmente spartiacque?
Apparentemente, sì. E c’è un’altra dinamica in atto che pare confermare questa ipotesi. Come mostra questa immagine, nel silenzio più totale sono già recuperate tutte le perdite del crash FTX. Per la prima volta da novembre, venerdì scorso Bitcoin ha superato quota 20.000 dollari, un bel +25% solo da inizio anno.
La ragione? Qualcuno parla di ottimismo rispetto a un’inflazione ormai al picco, stante l’ultimo dato CPI statunitense. Qualcuno, invece, si focalizza sulla liquidazione forzata di posizioni short colte con la guardia abbassata da questa upward move, stante un controvalore da 100 milioni di dollari in 5 degli ultimi 6 giorni. Venerdì, poi, le liquidations hanno toccato addirittura 449 milioni di controvalore. Tutto vero. E se invece la resurrezione della criptovaluta per antonomasia fosse il canarino nella miniera di altro?
Al Tesoro Usa ci sono infatti 346 miliardi di dollari parcheggiati, un controvalore che verrà rapidamente drenato per operare un offset rispetto proprio a quel tetto di debito che scatta domani. Conseguenza? Un boost supplementare di liquidità in stile Qe che sosterrà gli assets per almeno 6-7 mesi, oltretutto garantito dalla Costituzione. E nel pieno della recita a soggetto del rialzo dei tassi che non può e non deve fermarsi. In compenso, però, a oggi gli insiders non stanno comprando il rally di inizio anno. Nonostante i prezzi siano su livelli ben più bassi rispetto ad alcuni furiosi buy the dip anche del recente passato. Cosa sanno i bene informati che i comuni mortali ancora ignorano e che spinge loro a evitare come la peste certi acquisti sui minimi? Soprattutto, chi avrà ragione?
Insomma, i calcoli faustiani di Fed e Treasury per garantire a Wall Street un altro po’ di metadone monetario spacciato per innocuo ricostituente saranno alla base di un altro 2016 o 2020, ovvero un rally innescato e sostenuto da prezzi bassi che generano acquisti di massa e conseguenti short squeeze a ripetizione che li autoalimentano, schiantando ogni opzione ribassista? O questa volta, davvero, sarà differente? Insomma, nell’aria più di un qualcosa sembra dire che i conigli nel cilindro potrebbero sprecarsi, da qui all’estate. Ma che, inevitabilmente, qualcuno resterà soffocato. Come certi canarini nella miniera che cantano troppo. E troppo presto.
Attenzione poi a previsioni e accantonamenti su attese di perdite delle Big 4 statunitensi, le grandi banche che sono anche Primary dealers del debito, come mostra quest’ultima immagine.
Escluso il periodo Covid, chiaramente emergenziale a livello di perdite, oggi sono state create riserve per un controvalore che è ai massimi dal 2013. Brace for pain?
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