Non so se ve ne siete accorti, ma il 24 febbraio è stato sobriamente celebrato il primo anniversario del conflitto in Ucraina. In effetti, i media ne hanno parlato poco.

Quasi quanto i 3 morti al giorno sui luoghi di lavoro, cantieri del superbonus in testa. Morire in Ucraina, d’altronde, fa più audience. E non disturba politici e Confindustria. Parliamo un attimo, allora. Ma non dal punto di vista di Kiev. Né da quello di Mosca. Dalla prospettiva dell’Europa. Economica, ovviamente. E lasciando che siano i numeri a essere protagonisti e non le mie inutili opinioni personali, note altresì a tutti.



In contemporanea con quell’anniversario è stato diffuso il dato del Pil tedesco per il 4° trimestre 2022, il quale si contratto dello 0,4% e ha visto un breakdown disaggregato da brividi. Consumi privati -1% su base trimestrale, cap investments a -2,5% sempre sul trimestre, mentre spesa pubblica in aumento dello 0,6%. Ora, chi di voi pensa che l’Europa possa puntare al soft landing e a un bypass della recessione, alla luce di questi numeri? Ma attenzione, perché il peggio ce lo mostra il grafico: la domanda interna finale ha segnato un calo pari a quello registrato durante la Grande Crisi Finanziaria del 2008-2009.



E questo è ancora nulla. I numeri che fanno davvero paura arrivano dal proxy per antonomasia dello stato di salute della locomotiva d’Europa. Ovvero, i conti di un conglomerato industriale come Basf. La competitività europea sta registrando un continuo aumento della sofferenza, ha dichiarato in sede di presentazione il presidente del gruppo, Martin Brudermüller. E questa affermazione non è rimasta senza conseguenze dirette e immediate. Basf, infatti, chiude definitivamente lo stabilimento storico di Ludwigshafen, licenziando 2.600 addetti. Ma ecco il vero chiodo nella bara dell’economia tedesca (ed europea), alla faccia di Commissione, Eurostat e ottimisti a gettone: I nostri clienti europei continueranno a essere riforniti di diisocianato di toluene attraverso il nostro network globale. Nella fattispecie dagli impianti di Geismar, Yeosu e Shanghai. Ovvero, Stati Uniti, Corea del Sud e Cina. Basf chiude la sua home base e si concentra – per un componente base dei poliuretani – dove la competitività è maggiore. Parliamo di Basf. Ovvero, 78,6 miliardi di fatturato annuo (dato 2021).



Sarà cinico, ma se vogliamo guardare in faccia la realtà, al netto della retorica, la prospettiva europea del 24 febbraio è questa. Vittima di guerra, quantomeno dal punto di vista economico. Mentre altri, apparentemente, hanno guadagnato – e non poco – dal crollo della competitività legato a costi delle materie prime ed energia. E delle sanzioni. E ora? Allianz Research lo ha scritto chiaro nel suo report: il vero esame per l’Europa corporate sarà nel 2023, poiché la bolletta energetica per le industrie più trainanti sarà del 40% superiore a quella del 2021. Davvero pensiamo di evitare la recessione? Davvero crediamo al soft landing? E con l’inflazione che non pare destinata a calare – in Germania anzi è tornata a salire, dopo che la componente dei beni alimentari è passata dall’8,5% al 10,5% del paniere totale -, davvero pensate che la Bce potrà fare la guerra alla Bundesbank e fermarsi? E, come sperano Tesoro e Bankitalia, magari anche attivare il reinvestimento titoli finora solo annunciato?

Ma non basta. Ancora no. Il Levada Center è un istituto di studi demoscopici e sociali indipendente. Talmente indipendente da essere catalogato dal Governo russo come agente straniero in base alla legge del 2012. Tanto per sgomberare subito il campo da facili illazioni sulla faziosità o veridicità del dato. In base al suo ultimo sondaggio (relativo al mese di gennaio), infatti, il 75% dei russi sostiene l’operazione militare in Ucraina, come mostra il grafico preparato da Statista.

E al netto di un G20 conclusosi clamorosamente con una lite fra ministri a Bangalore, tale da non consentire l’emanazione di un comunicato finale congiunto, ecco che Nato e Stati Uniti hanno immediatamente bocciato il piano di pace cinese. Se piace a Putin, allora vuol dire che non può essere buono, ha sentenziato con la solita, lungimirante saggezza Joe Biden. L’Europa, ovviamente, tace. E attende ordini da eseguire pedissequamente. Ma la vera notizia è arrivata a latere del G20 indiano, al cui fallimento i media italiani non hanno dedicato che pochi istanti, occupati com’erano dalla canonizzazione di Maurizio Costanzo. Dopo una contrazione del 2,1% nel 2022, inferiore alle catastrofiche attese/speranze occidentali, l’economia della Russia nell’anno in corso è attesa in crescita dello 0,3%.

Bank of Russia? Ministero della Finanze di Mosca? No, a confermarlo è l’aggiornamento del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, come mostra la tabella. Insomma, sanzioni, embargo energetico e price cap non sono serviti a nulla. Quantomeno non a tramutare in realtà l’auspicio di Joe Biden di ridurre l’economia di Mosca in un cratere attraverso l’azione congiunta delle restrizioni occidentali.

Insomma, dopo aver preso atto che la Cina non ha scaricato la Russia, ora ai geniali analisti di Corriere e Repubblica toccherà mettersi l’anima in pace anche sul fatto che la Nato non rappresenti il mondo. E che la Russia non sia affatto isolata. Lo dimostrano l’astensione di Cina e India in sede di risoluzione Onu. E, soprattutto, la drammatica impasse in cui si è sostanziato il G20. Ora, poi, la conferma del Fmi. Il quale difficilmente può essere tacciato di simpatie per il Cremlino. E che, paradossalmente, comincia invece a patire e non poco la concorrenza della Cina come prestatore di ultima istanza presso molti Paesi in via di sviluppo, in Asia come in Africa. Insomma, tutto tranne che un fiancheggiatore occulto dell’asse Xi-Putin.

In compenso e in contemporanea, l’Europa varava il decimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Imperterrita. E lo faceva a fronte di un dato relativo agli investimenti privati in macchinari e attrezzature che nel quarto trimestre 2022 in Germania ha segnato qualcosa come -3,6%. Su base trimestrale. Lo sprofondo macro, insomma, come mostra questo ultimo grafico.

La recessione garantita. Non a caso, Basf ha annunciato la chiusura definitiva del quartier generale storico in Germania e la concentrazione delle produzioni in Cina, Corea del Sud e Stati Uniti. Citando – fra le ragioni che hanno reso necessaria e ineludibile la drammatica scelta – la sempre deteriorante competitività corporate, l’eccesso di regolamentazione europeo e i prezzi energetici ancora troppo alti. Insomma, l’Europa è già oggi un deserto industriale. O, se preferiamo, il paradiso della de-industrializzazione. Ma prosegue con le sanzioni. Facendo felici Usa e Cina. Mentre il Cremlino vanta un supporto di oltre il 75% dei russi.

Quanto resisteranno gli europei, quanto potranno dimostrarsi miopi e autolesionisti di fronte alla realtà? Tanto vi dovevo, cari lettori. Il quadro è delineato. A voi decidere se accettarlo.

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