Il Governo sbanda. E, soprattutto, c’è voluto davvero poco perché Giorgia Meloni recidesse il cordone ombelicale, tutt’altro che simbolico, con il Governo Draghi. Il Pnrr è troppo rigido e va ridiscusso, a partire dall’abuso di ufficio che lega le mani ai pubblici amministratori, il suo messaggio all’assemblea dell’Anci. Sullo sfondo, 40 progetti in enorme ritardo e conseguenti miliardi europei a rischio. Tanti. Ma non basta. In evidente discontinuità con la politica delle cosiddette milestones del Recovery Plan seguite dal suo predecessore come laiche tavole della Legge, la Premier (mi scuserà ma uso il femminile per le donne) invia un altro segnale di pace al ceto medio commerciale, abolendo l’obbligo di accettare pagamenti elettronici per importi inferiori ai 30 euro. E se ci saranno sei mesi di tempo per studiare nuove esenzioni, già oggi le multe sono sospese.
Ed ecco che, quasi in un déjà vu del regime emergenziale permanente dei Governi da Pentapartito, palazzo Chigi vara un bell’aumento del prezzo delle sigarette. L’italico emblema delle casse vuote e della necessità di raschiare il barile. A cui, in netta contraddizione con quanto promesso da Matteo Salvini, si unisce anche una riduzione del taglio delle accise sulla benzina, sceso da 30 a 18 centesimi. Di fatto, un aumento di 12 centesimi, se contestualizzato in una condizione di prezzi in crescita al 12% annuo. Si sbanda, appunto. A tal punto da aver inviato a Bruxelles una Legge di bilancio senza indicazione delle coperture. Pessimo segnale. Più che altro, un assist fin troppo facile per goleador esperti come i funzionari europei, in caso qualcuno volesse subito far rientrare nei ranghi le proteste e le alzate di spalle nei confronti del Pnrr.
Ma questa situazione presuppone anche altro. Quantomeno, in punta di buonafede. Ovvero, perché l’Italia non ha il coraggio di fare i conti con il suo recentissimo passato di mitomania politica? Non so se ve ne siete accorti, ma il famoso price cap sul gas, di cui il Governo Draghi si era fatto promotore in Europa e che per alcuni apologeti alla Calenda rappresentava lo stigma positivo del ritrovato protagonismo italico in Europa, è fallito miseramente. Anzi, è annegato nel ridicolo.
Sapete perché, visto che i media non hanno dedicato troppo tempo alla questione, al fine di non insozzare con il fango della realtà la candida immaginetta del Governo dei Migliori? Perché il price cap ideato dalla Commissione europea è una farsa, perfetta rappresentazione dell’attuale Europa. Affinché entri ipoteticamente in vigore, infatti, il prezzo dovrà superare la soglia dei 275 euro MWh. Non per un giorno ma per 14 giorni di fila. Durante i quali, inoltre, il divario con gli indici di riferimento per il gas liquefatto dovrà essere di almeno 58 euro MWh. Per 10 giorni consecutivi. Questo scenario, finora, non si è mai realizzato. Nemmeno durante i giorni di picco record dello scorso agosto. La proposta della Commissione europea, insomma, è stata scritta in modo tale da rendere il price cap un qualcosa di esistente solo sulla carta, un mero contentino formale.
D’altronde, giova ricordare come si stia parlando della medesima Europa che, stante la fondamentale importanza del tema, ha investito del ruolo di mediatore con i Paesi del Golfo nientemeno che Luigi Di Maio. E giova ricordare come, al netto di questo fallimento epocale e della clamorosa prova di forza dei Paesi del Nord nei confronti dell’Italia in sede di trattative, oggi il nostro Paese si ritrovi totalmente dipendente da sole due fonti di gas per il futuro. Gli Usa, stante quanto dichiarato da Giorgia Meloni dopo il colloquio con Joe Biden al G20 di Bali. E l’Algeria, dopo il viaggio di Mario Draghi dello scorso luglio, lo stesso descritto dalla stampa italiana come una sorta di capolavoro diplomatico. Bene, se anche gli Usa ci fornissero davvero il loro Lng e non a prezzi folli, l’Italia non ha rigassificatori. E proprio ieri, il comune di Piombino ha presentato ricorso alla magistratura con tanto di richiesta di sospensiva. Al netto di questo, resta l’Algeria. Di cui occorre prendere atto dell’adesione formale ai Brics, quindi di una scelta di campo politica che presuppone volontà di collaborazione prioritaria con Cina, Russia e India. Non esattamente gli alleati scelti prima da Mario Draghi e poi da Giorgia Meloni.
E attenzione, perché questo grafico ci mostra come i ministri dell’Energia Ue abbiano voluto raddoppiare gli sforzi e tramutare in fallimento annunciato anche il price cap sul petrolio russo, il quale dovrebbe entrare in vigore già dal prossimo 5 dicembre sotto iniziale forma di bando. Peccato che dopo il nulla di fatto, la discussione sia stata aggiornata a un nuovo meeting straordinario da tenersi probabilmente il 13 dicembre. Nel frattempo, liberi tutti.
Come d’altronde dimostrato dall’export russo di questi ultimi mesi, calato soltanto da qualche settimana – quantomeno rispetto agli acquisti cinesi – proprio in ossequio dell’approssimarsi di quella scadenza. Nemmeno a dirlo, l’impasse europea si traduce in un favore alle entrate fiscali russe. La Commissione europea ha infatti proposto un cap di 65 dollari per il greggio degli Urali, livello ritenuto troppo generoso verso Mosca da Polonia e Paesi Baltici, mentre i Paesi maggiormente interessati dal trasporto charter – come la Grecia – non intendono scendere sotto i 70 dollari. Et voilà, stallo. La situazione in cui si muove l’Italia è questa, un pericoloso gioco a somma zero con il poco rimasto in cassa che si incastona in un contesto europeo di guerriglia permanente nella difesa degli interessi di parte o di gruppo. Praticamente, la strada lastricata verso il disastro. Non a caso, il Terzo Polo avanza proposte concrete di collaborazione che appaiono un palese esempio di opposizione di governo, una versione all’amatriciana dello shadow cabinet britannico che temo sia prodromica soltanto a una futura, nuova ammucchiata in nome dell’ennesima emergenza nazionale.
Non stupisce, sono bastati i primi giorni di schermaglie fra alleati nell’atto di compilazione della lista dei ministri per capire quale sarebbe stato lo sviluppo della situazione. Una spiaggia a Ferragosto, strapiena di bandierine al posto degli ombrelloni. Giorgia Meloni vuole davvero fare qualcosa per il Paese, al netto di come andrà a finire e quanto durerà il suo esecutivo? Sblocchi immediatamente la vicenda Lukoil di Priolo, avocando a sé e al Consiglio dei ministri il potere di deroga al bando europeo sul petrolio russo che entrerà in vigore il 5 dicembre. Come ha già fatto il Belgio. Un’Europa che non sa e non vuole decidere, perché ognuno pensa a tutelare i propri interessi, non merita la messa in discussione di quasi 10.000 posti di lavoro del primo polo energetico italiano. Oltretutto, in un’area del Paese dove l’occupazione non è certo un bene diffuso. E se gli americani avranno da ridire, leggendo questa mossa come un favore al Cremlino, faccia notare loro come la benzina sotto i 5 dollari al gallone è stata garantita a Joe Biden in campagna elettorale solo dal petrolio russo reso ipocritamente anonimo dalle solite triangolazioni fra brokers e spedizionieri.
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