Nel discorso inaugurale di Biden lo spazio dedicato all'”economia” è stato contenuto considerato il crollo del Pil record del 2020 e l’economia ancora “gelata” da restrizioni e lockdown. Le preoccupazioni dei lavoratori e della classe media sono state appena accennate e oscurate dagli appelli all’unità e alle celebrazioni per la vittoria della democrazia. Trump, nel 2016, aveva vinto raccogliendo i voti di quella classe media che era rimasta ai margini dai recuperi delle borse che hanno seguito la crisi del 2008 e che voleva un’America di nuovo “grande”; “Make America Great Again” più che uno slogan nazionalista era il sogno di un’economia meno finanziaria e meno sbilanciata sul lato commerciale.



Quello che si intravede del programma di Biden segna un’inversione abbastanza netta rispetto agli ultimi quattro anni. La “green economy”, il ritorno agli accordi di Parigi, un approccio meno muscolare con la Cina e il suo surplus commerciale mostruoso in un certo senso allineano la politica economica americana a quella europea chiudendo una fase in cui l’America ha perseguito politiche che nulla avevano a che fare con quelle del Vecchio continente; la politica “disallineata” di Trump non è stata popolare sui grandi media, accusata di essere troppo protezionistica e “sporca” anche in termini ambientali.



Ora l’Europa ha un partner che pensa e agisce secondo le stesse categorie e perseguendo le stesse strategie e la domanda che inevitabilmente si pone e se questo sia un bene o un male. Le politiche economiche europee, soprattutto quelle per la transizione energetica e poi quelle commerciali nei confronti della Cina, hanno un problema: costano tantissimo. La transizione energetica da fonti sicure ed economiche, si pensi ai motori diesel che fanno un milione di chilometri, a fonti rinnovabili che certamente oggi presentano costi non apparenti importanti viene pagata da consumatori e imprese sotto forma di alti costi energetici. L’eolico e il solare sono certamente bellissimi, ma nessuno sa ancora come bisognerebbe comportarsi quando non c’è il vento dato che, a oggi, non c’è un modo di immagazzinare l’energia. Regolare l’economia con uno stuolo di regolamenti per “tutelare il consumatore” o assicurare una redistribuzione artificiale ha un costo che si riflette, paradossalmente, proprio sulle categorie imprenditoriali o sui consumatori più deboli.



L’Europa, con il suo deficit commerciale colossale verso gli Stati Uniti, in altre parole ha potuto essere virtuosa e dare lezioni morali all’America di Trump anche perché il consumatore americano poteva permettersi Bmw, spumante e via discorrendo grazie alle politiche, magari non raffinatissime, ma certamente efficaci per le tasche dei consumatori americani. Il consumatore americano non è stato gravato dai costi della transizione energetiche, né dalla mole colossale di burocrazia che l’Unione europea riesce a produrre. 

La questione quindi non è banale. Cosa succede ora che il consumatore americano avrà meno soldi in tasca perché deve finanziarie politiche che nel breve medio termine sono sicuramente costosissime? Questo senza contare l’aspetto “burocratico”. Sia dopo la crisi Lehman che dopo la crisi dei debiti sovrani l’economia europea è stata salvata dalle esportazioni e queste esportazioni andavano, in gran parte, verso gli Stati Uniti. Nei prossimi quattro anni quindi diverrà chiaro se l’Europa riuscirà a uscire dalla terza crisi negli ultimi dieci anni come nelle prime due e cioè grazie alle supposte “irresponsabilità” finanziarie, ambientali e “burocratiche” degli Stati Uniti. Se l’America però diventa “europea” nelle ricette economiche questo bonus semplicemente non ci sarà più e l’Europa dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue scelte. 

L’Europa ha odiato Trump mentre lucrava sul cattivo e irresponsabile consumatore americano. Oggi l’Europa ama Biden, ma quel consumatore “americano” che ha fatto la sua fortuna non ci sarà più.