Oro a 2.300 dollari. Rame a 4.211 dollari. Petrolio a 85 dollari. Va tutto bene. D’altronde, le commodities mica contano nulla. Contano gli algoritmi. I Bitcoin. L’intelligenza artificiale. I microchip. E quando proprio si è raschiato il fondo del barile, magari i vaccini o i farmaci anti-obesità.
Tira brutta aria. Proprio brutta. E non per la Borsa e le sue altalene. Non fosse altro per il rally infinito che ha vissuto fino alla scorsa settimana, il quale impone un minimo di prospettiva. Tira brutta aria perché quando gli unicorni cominciano a nascondersi nella boscaglia stanarli impone una passeggiata nell’ignoto. E una conseguente presa d’atto della realtà. La quale, ad esempio, il 2 aprile ha visto la Banca centrale svedese chiedere al Parlamento di essere ricapitalizzata. La ragione? La solita. Il famoso Qe che non impone costi, li ha imposti. E dopo la Bank of England, un’altra istituzione storica – anzi, la più storica, la più antica al mondo – è stata costretta a battere cassa. Per l’esattezza, 43,7 miliardi di corone. Circa 4,1 miliardi di dollari. To restore equity, la motivazione ufficiale.
Già, perché lo statuto della Riksbank impone un livello medio di capitalizzazione sotto il quale non si può andare. Fra il massimo di 62,6 miliardi di corone e il minimo di 20,9 miliardi di corone. Scritto nero su bianco. Si chiama appunto statutary base level ed è fissato a 41,7 miliardi di corone. Solo a gennaio, il governatore della Banca centrale svedese aveva chiesto una maggior capacità di autofinanziamento. Pochi mesi e, di fatto, è arrivato il salvataggio. Certo, il termine è inesatto, trattandosi di una Banca centrale che può stampare la moneta di cui ha bisogno, come sostengono certi premio Nobel asintomatici. Ma alla fine, senza quel denaro già stampato e pubblico, la Riksbank si trovava in aperta violazione del proprio statuto rispetto al livello di equity. E tutto per le perdite in cui è incorsa a causa degli acquisti legati al Qe.
Il problema? Prospettico. La Fed annega nelle liabilities. Circa 140 miliardi di dollari. La stessa Bce, per la prima volta in 20 anni, quest’anno ha segnato un rosso. Quindi, occorre chiedersi, come andare avanti? Perché è inutile negare che la strada ormai intrapresa sia quella del Quantitative easing strutturale. Ovunque. Cambiano i modelli. Le tempistiche. I plafond. Il collaterale accettato. Ma il principio è lo stesso. Debito e deficit sono le colonne d’Ercole che reggono il Sistema occidentale, lo stesso che fa le pulci alla Cina e alle sue bolle e che punta al default della Russia, la cui ratio debito/Pil è del 19%. Senza quelle, puff. E non le Borse, i conti pubblici. L’Italia ha manipolato il proprio Pil degli ultimi anni attraverso lo schema Ponzi del Superbonus. Altrimenti, i titoloni relativi alle nostre performance di crescita migliori della Germania, Schandenfreude infantile e suicida stante l’interscambio che ci lega a Berlino, sarebbero rimaste nella fantasia e nelle penne (o tastiere) dei megafoni di regime travestiti da giornali. Ora, però, esattamente come per i danni da Qe delle Banche centrali meno attrezzate ad assorbire le perdite, ecco che il medesimo Superbonus sta facendo invecchiare il ministro Giorgetti a vista d’occhio.
Cosa ci ha tenuto e ci tiene in piedi? La Bce. L’odiata Europa. Piaccia o meno. Senza reinvestimento titoli del Pepp, lo spread sarebbe andato a 400 almeno un anno fa. Ma il reinvestimento titoli a fine anno termina. Salvo nuove emergenze. E il nostro deficit segna 7,2% dai 5,3% preventivati nella Nadef. Preventivati e quindi dotati di copertura. E ciò che avanza, il resto? Mancia? No. Il resto sta per arrivare. Perché quando Bloomberg decide che sia giunto il tempo di pubblicare un articolo dal titolo Italy won’t meet EU’s3% deficit target until 2026 at least 2026, vi assicuro che è meglio drizzare le antenne. Perché equivale a un downgrade delle agenzie di rating. Le quali, si sa, essendo soggetti privati, tendono a non bocciare gli studenti che pagano rette astronomiche. Se non quando la bocciatura appare inevitabile per manifesta ignoranza irrecuperabile. A quel punto, più che la retta occorre salvare la faccia. Di studenti asini è pieno il mondo, mentre il proprio curriculum non sempre torna bianco dopo certe macchie. E altresì, quando Bloomberg dedica al tema un articolo totalmente privo di notizie e totalmente basato sulla formula del people familiar with the matter, l’allarme è scattato. Anonimato. Ma millantato come in fuoriuscita dalle segrete stanze che contano. Magari, sposando la modalità da corsa alle scialuppe prima che sia tardi, certi refoli arrivano proprio dal Mef. Soprattutto in vista delle Europee. E del rimpasto che alcuni giornali dipingono come già in mente della Premier. E con principale agnello sacrificale proprio in Giancarlo Giorgetti.
D’altronde, basta leggere l’articolo per capirne la natura. E la finalità. Non un dato, una cifra, una criticità che non sia nota da settimane. Elucubrazioni. Cui però dedicare un titolone. E in un momento decisamente simbolico, poiché da Bruxelles non arriva ufficialmente un fiato che non sia legato a doppio filo alla russofobia imposta da Zio Sam ai suoi schiavetti felicemente al lavoro nei campi di cotone dell’autolesionismo. L’unica indicazione che arriva da Bloomberg? Quello sforamento così ampio e prolungato nel tempo, stante anche una crescita decisamente insufficiente prevista per quest’anno, rischia di innescare reazioni ufficiali in sede comunitaria. Anzi, leviamo quel rischio. Ma vah? Tra le righe, comunque si legge chiaramente come le conseguenze ci saranno. E non lievi. Al netto di una Manovra correttiva già assicurata per l’autunno, il dinamico duo Bankitalia-Tesoro quali sfide si vedrà costretto a fronteggiare, dopo le emissioni da record assoluto del primo trimestre di quest’anno? Giustamente, fissate e portate a termine nonostante i tassi alti.
Perché nonostante il dato inflazionistico di marzo sembri alimentare l’ipotesi di un primo taglio della Bce a giugno, davanti a noi il quadro di mercato è quasi certamente destinato a peggiorare. Sia a livello di rifinanziamento, sia a livello di premio di rischio. Noi e la Francia. Uno dei due dovrà accettare di recitare il ruolo di capro espiatorio. Di agnello sacrificale. Non a caso, Emmanuel Macron ha smesso di colpo con gli attacchi frontali alla Russia. E addirittura offre al Cremlino collaborazione contro l’Isis. Qui, invece… La differenza di una classe dirigente sta machiavellicamente in questo, stante la miseria media dell’Europa attuale. Saper sopravvivere. Chiedere al Mef per chiarimenti e referenze al riguardo.
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