Ora lo avete capito che siamo con le spalle al muro? Ora lo avete capito che il mini-tour europeo di Giuseppe Conte altro non è stato se non una riedizione in chiave economico-finanziaria del chicken game di Gioventù bruciata, il “gioco del pollo” fra due contendenti che corrono in auto verso il burrone e devono riuscire a mantenere il sangue freddo e gettarsi fuori dal veicolo un secondo dopo l’avversario? Anche perché, cari lettori, se davvero il nostro Premier ha preso l’aereo nella convinzione di fare fronte comune con Madrid e Lisbona per contrastare i Paesi del Nord, occorre davvero chiedersi chi lo consigli. Perché al netto delle tante parole e dei proclami bellicosi, alla fine al Mes non accederà solo l’Italia. Statene certi. Il sistema bancario spagnolo è una bomba a orologeria innescata e se qualcosa non cambierà in fretta, entro l’inizio dell’autunno l’orgoglio iberico fare giocoforza posto al realismo. Nemmeno a dirlo, vista l’esposizione della nano-economia lusitana a quella spagnola, un secondo dopo anche il Portogallo busserà alla porta di Bruxelles. È un film che abbiamo già visto.
E proprio questo, paradossalmente, potrebbe giocare da discrimine. Spagna, Portogallo e Grecia hanno già vissuto salvataggi e commissariamenti europei nel recente passato, più o meno drastici e diretti. La Spagna di Sanchez, ad esempio, ha visto proprio il suo sistema bancario stracarico di immondizia dell’epoca del boom immobiliare di Zapatero – quello che piaceva tanto ai progressisti de noantri – salvato con oltre 45 miliardi dell’Europa. Il Portogallo di Costa, quello che sempre in base alla vulgata leftist nostrana sarebbe un esempio di sviluppo attraverso la giustizia sociale, è ancora in piedi solo grazie ai soldi garantitigli dalla Bce in virtù del “generoso” rating di investment grade che la canadese Dbrs – unica fra le quattro grandi delle valutazioni sovrane – si è rifiutata di degradare per oltre due anni, permettendo a Lisbona di potersi finanziare all’Eurotower con collaterale che in realtà era carta igienica al pari di quello greco.
E a proposito di Grecia, lasciamo perdere. Perché al netto della vulgata che vuole le banche francesi e tedesche come colpevoli uniche del tracollo di Atene, giova ricordare come non sia stata Berlino a truccare per anni i conti tramite contratti swap, né tantomeno Parigi a garantire trattamenti pensionistici di massa degni del Paese degli unicorni. Certo, quando c’è stato da speculare, sono corsi tutti, chi più chi meno. Ma senza i presupposti di accountability da governo centrafricano messi in atto ancor prima delle tragicomiche Olimpiadi del 2004, il vero Big Bang del default dei conti, nessuno si sarebbe azzardato ad andare a giocare con derivati e strumenti esotici vari. Così, tanto per mettere le cosine al loro posto. Quindi, temo che l’accoppiata Spagna-Portogallo abbia sì accettato di fare massa critica con l’Italia al prossimo Vertice Ue del 17-18 luglio, ma a una condizione: se Bruxelles vuole che qualcuno acceda al Mes, prima di mettere nero su bianco il no a ogni condizionalità, quel qualcuno deve essere Roma. La quale, di fatto, ha esaurito i partner privilegiati. E gli alleati di comodo in questa battaglia.
Perché la Grecia, per ovvi motivi, arriverà a raschiare il barile in tutti i modi – non ultimo, chiedendo denaro alla Cina – pur di non attivare subito il Mes: quindi, c’è il forte rischio che sia comunque Giuseppe Conte il primo ad aprire lo sportello e gettarsi dall’auto in corsa. Permettendo a tutti gli altri di rallentare, evitando il burrone e salvando la faccia. E sapete perché? Lo mostra plasticamente questo grafico: la Bce da inizio del programma Pepp ha semplicemente annullato il concetto di volatilità nel mercato dei bond sovrani. A ogni sussulto, a ogni criticità macro o di tenuta politica dell’Unione o di uno dei suoi Stati membri, Francoforte ha risposto con azioni dirette e concrete che hanno fiaccato sul nascere ogni possibile assalto speculativo. Di fatto, cancellando dal mercato il premio di rischio. Insomma, il mondo perfetto sognato dall’onorevole Borghi e dai suoi sodali: l’irresponsabilità al potere, il Festival della cicala.
E questo lo sanno tutti, a partire proprio dai Paesi con cui si vorrebbe fare fronte comune per spezzare le reni ai cosiddetti frugali: il problema è che quando pensi che l’unione di più debolezze possa tramutarsi in una forza, hai sbagliato i tuoi calcoli dal principio. E rischi di farti male. La mossa di Giuseppe Conte, mediaticamente, è stata pessima, una prova di disperazione politica spaventosa. Tamponata, almeno in parte, paradossalmente proprio da Angela Merkel e dal suo appello alla solidarietà europea, alla necessità di andare incontro alle esigenze dei più deboli per preservare l’Ue stessa. Parole rituali, figlie del ruolo di Presidente di turno? In parte non lo escludo. Anzi. Ma non solo. E vi spiego perché.
Al netto del Recovery fund e dei tempi che i Paesi più esposti vorrebbero accelerare per la sua approvazione nella versione da 750 miliardi, è chiaro che i Paesi del Nord stiano giocando di sponda, forti del sostegno di una parte non residuale della politica tedesca e della sua opinione pubblica. Ma è altresì palese che la Cancelliera sappia come l’Europa in questo momento sia il proverbiale vaso di coccio fra i due vasi di ferro rappresentati da Usa e Cina. E senza l’Europa o con un’Ue colpita e affondata, anche Berlino patirebbe. E non poco.
Ecco quindi emergere il profilo diplomatico e di mediazione continua di Angela Merkel, la quale è politica navigata e di scuola Ddr: conosce certe dinamiche. E quando domenica avrà letto sui media i resoconti dell’articolo pubblicato dal Daily Telegraph, in base al quale il Governo Johnson avrebbe cambiato idea sulla rete 5G e sarebbe pronto a estromettere Huawei dai giochi, avrà fatto due più due. La Brexit – fra l’altro, tutt’altro che risolta – non ha privato solo l’Ue di un membro, ma ha aumentato di una pedina pesante lo schieramento sulla scacchiera degli avversari economici dell’Ue. Londra ormai batte i tacchi a ogni starnuto di Washington, è tornata colonia, vista l’incapacità di recitare nella realtà il ruolo neo-imperiale che l’uscita dall’Ue doveva garantirle.
Ed ecco che, passate poche ore, arriva un altro segnale. Con timing pressoché svizzero, il Dipartimento di Giustizia Usa ha multato Deutsche Bank per 150 milioni di dollari per omessa vigilanza sui conti e sulle attività di prestito verso Jeffrey Epstein, il miliardario pedofilo suicidatosi in carcere, la cui agendina segreta ha fatto tremare per settimane il jet-set mondiale. In sé, argent de poche. Negli ultimi anni Deutsche Bank ha pagato sull’unghia quasi una ventina di miliardi in multe negli Usa, dal caso subprime in poi. Quindi, 150 milioni sono gestibili anche in regime di ricapitalizzazione e bad bank. Ma è il danno reputazionale di essere legati a un nome che l’opinione pubblica ha espulso dallo stesso genere umano a creare tensione e timore. Soprattutto quando il sistema finanziario tedesco nella sua interezza – e di cui Deutsche Bank rimane comunque caposaldo – deve già fare i conti con le dimissioni del presidente di Commerzbank e, soprattutto, lo scandalo Wirecard.
Avete notato come da qualche giorno il tracollo del gioiello fin-tech bavarese fosse finito nel dimenticatoio? Bene, ora guardate questo grafico: mostra come in base a un calcolo di Bloomberg, a sua volta frutto della sintesi del lavoro di più analisti, il price target reale del titolo di Wirecard sia addirittura -29,34 euro, stando alla somma dell’analisi valutativa delle varie parti della struttura e della deduzione dello stock di debito. Insomma, equity negativa. Un tracollo totale degli azionisti, i quali oggi stanno facendo i conti con carta che al Dax viaggia in area 2,70 euro per azione.
Ebbene, un parziale rasserenamento della situazione era stato garantito proprio dall’ipotesi di intervento di Deutsche Bank per rilevare il ramo banking di Wirecard, di fatto il più profittevole al netto dei magheggi di cassa. Un’operazione da cavaliere bianco tutta interna che il Governo tedesco aveva di fatto benedetto, sperando così di evitare un bagno di sangue per troppi azionisti e un crollo totale delle fiducia da parte di milioni e milioni di cittadini-contribuenti. Et voilà, da Oltreoceano arriva il siluro. Proprio ora. Angela Merkel, tendente – come ogni politico di razza formatosi nella ex Germania Est – a vedere scenari più ampi dietro ai singoli eventi, a unire i mitici puntini, ha drizzato le orecchie e legato la mossa di Boris Johnson a quella della giustizia Usa. Terzo tassello, guarda caso, riguardante l’Italia.
Perché poche ore dopo, mentre Giuseppe Conte incontrava Davide Casaleggio a palazzo Chigi e dagli Usa una nota opinionista conservatrice bollava il meeting come apertura del Governo italiano “al maggiore lobbysta di Huawei sul 5G”, da Londra via Financial Times arrivava un altro siluro, questo volta indirizzato contro la vera cassaforte del sistema Italia, Generali. L’accusa? Reputazionalmente infamante, quanto e peggio quella mossa contro Deutsche Bank: aver operato su obbligazioni riconducibili alla ‘ndrangheta. Proprio in questo momento, con Mediobanca costretta a fare i conti con la scalata di Leonardo Del Vecchio – definita “ambigua” non ultimo da Carlo Cimbri, ad di Unipol -, ecco un’accusa infamante contro la più importante istituzione finanziaria italiana, di fatto detentrice di un pacchetto di Btp in grado di muovere parecchie pedine. E, non dimentichiamolo, in uno stato di generale pre-allarme dato dalla scelta del Mef di schierare Cassa depositi e prestiti a difesa potenziale dello spread durante i mesi estivi. Sintomo, come ho scritto due giorni fa, della quasi certezza che le tensioni in seno alla Bce potrebbero davvero ridimensionare la portata del firewall garantito dal Pepp prima di quanto si prevedesse.
Il problema è che Angela Merkel un quadro d’insieme, più ampio, è in grado di leggerlo. Altri no. Altri continuano con la guerra in nome dell’irresponsabilità al potere, dell’autarchia nella gestione del debito pubblico, della germanofobia puerile e degna di chi non riesce a perdonare il turista tedesco che nell’estate del 1986 gli ha fregato la fidanzata in Riviera, con l’ipotesi di una Bce in stile Fed. Insomma, collaborazionisti del nemico. Perché non capire che il Covid rappresenta la più grande occasione per Cina e Usa di cannibalizzare quel boccone prelibato chiamato Ue, significa solo due cose. Essere stupidi. O essere in malafede. E non so cosa sia peggio.
Se Giuseppe Conte vuole davvero salvare il salvabile, mandi tutti a quel Paese. Tutti. E prenda l’aereo in direzione Berlino, prima del 17 luglio. Il suo destino è ormai politicamente segnato, quantomeno da Premier. Almeno faccia qualcosa per il Paese. Prima che qualche cavaliere di ventura completi malamente il quadro abbozzato 28 anni fa: l’apertura di Romano Prodi all’ingresso di Silvio Berlusconi al Governo parla questa lingua. In maniera quantomai esplicita, conoscendo il Professore, sintomo di gravità della situazione e di tempo che sta rapidamente scadendo. Perché con Berlino si può trattare, non fosse altro per reciproci interessi. Con Washington e Pechino, no.