Come avrete potuto notare dai telegiornali, non c’è voluto molto prima che la mia teoria trovasse conferma dalla cronaca. Di colpo, proprio mentre la scadenza di fine trimestre portava in dote un outflow di capitale variabile fra i 35 e i 76 miliardi da parte di Fondi pensione che scaricavano titoli azionari per rifugiarsi nella più cautelativa big rotation verso l’obbligazionario, il Covid ha magicamente rialzato la testa negli Usa. Addirittura, fra giovedì e domenica scorsi, sfondando tre record consecutivi rispetto al numero di nuovi contagiati giornalieri. Texas e Florida conoscevano i picchi maggiori e, addirittura, venivano posti nuovamente in lockdown i bar e i ritrovi più affollati e dallo sgabuzzino delle cortine mediatiche in cui era stato rinchiuso, anche il professor Anthony Fauci tornava a far sentire la sua voce, arringando tutti rispetto alla pericolosità di questo approccio irresponsabile alla Fase 2. Insomma, parliamoci chiaro: il timore della seconda ondata rappresenta qualcosa più del classico cigno nero, il tail risk da mettere in conto, come se ormai le variabili sanitarie fossero elementi di volatilità da considerare nel calcolo dei modelli di VaR della nostra vita quotidiana. La seconda ondata è la cosiddetta last resort, è l’arma segreta, è il coniglio dal cilindro, l’asso nella manica.



Qualcosa va più storto del previsto, sempre restando consci del fatto che a novembre si vota per le presidenziali? Nessun problema: si chiude tutto. Panico assicurato fra la gente e, soprattutto, Fed pronta a qualsiasi mossa per scongiurare un tracollo ancor peggiore del Pil. Converrete che si tratta di una bella scappatoia potenziale. E, soprattutto, di una gran bella dinamo per il trend in atto da metà marzo, sintetizzato meravigliosamente da questo grafico, contenuto nell’ultimo studio di Bank of America.



Quello attuale è infatti il rally da bear market più grande della storia. Di cosa si tratta? Basicamente, la stessa dinamica sostanziatasi nel 1929, 1938 e 1974: mercati azionari rialzisti nel pieno di una correzione macro al ribasso, una pre-recessione o recessione conclamata nella sua fase prodromica. Quello in atto, grazie all’operatività della Fed e proprio alle continue dinamiche di stop-and-go garantite prima della trattativa sul commercio con la Cina e oggi dal Covid, è il maggiore di sempre. Un qualcosa di fuori logica, tali sono i volumi. Non a caso, i protagonisti principali sono gli investitori retail, i Gordon Gekko in ciabatte che operano su piattaforme on-line dal soggiorno di casa. E il cherry picking avviene fra i titoli più mal ridotti in assoluto, da Hertz a Royal Caribbean in giù. Peggio sei messo, minore il tuo rating, più alto il tuo indebitamento, più ti vogliono. Follia totale. Ma con una sua logica, appunto.Se infatti il mercato è guidato da traders non professionisti che si informano su siti e blog e da algoritmi che rispondono a impulsi pavloviani, è chiaro che tutto deve basarsi unicamente su un dato: l’informazione.



D’altronde, tornando a Gordon Gekko, fu proprio lui a definirla la base del suo successo. Non importa dove o come le ottieni, ottienile, diceva a Bud Fox per tentarlo e trascinarlo con sé nel gorgo dell’insider trading. E per quanto illegale, quantomeno quella pratica richiedeva sforzo, lavoro, fantasia, capacità di intrufolarsi e millantare. Qui è tutto servito su un piatto d’argento, perché è il sistema che ha bisogno di disinformazione costante. E per questo, la crea a getto continuo.

Su cosa si sono basati, infatti, gran parte dei rialzi che il mercato ha conosciuto dopo il tracollo di metà marzo? Certo, l’architrave è stato l’intervento senza precedenti della Fed e la sua promessa di acquistare bond di aziende decotte, a prescindere dal rating. Ma i veri driver sono stati due: gli short squeezes e gli acquisti sui minimi, il cosiddetto buy-the-dip. Con i buybacks sempre operativi, ma destinati a essere rimpiazzati sul breve periodo, quantomeno in ossequio alle normative farsa della Fed rispetto agli stress test di oggi, occorreva trovare supporti diversi. Temporalmente limitati, ma, proprio per questo, sufficientemente potenti da genere un rally da bear market come quello attuale. E cosa c’è di meglio di continue ricoperture forzate di posizioni ribassiste, gli short squeezes appunto? Nulla, perché quando scatta il margine, chi opera si fionda a chiudere anche in perdita, in ossequio solo alla disperata necessità di non perdere di più. E in un mercato come quello attuale, basta poco per muovere gli indici. Ad esempio, l’esplosione “a tempo” di una serie di focolai di Covid, proprio quando il Paese sembra fuori dall’emergenza.

E cari lettori, non occorre ricorrere al complottismo più bieco per fare due più due e rendersi conto che le manifestazioni di massa per protestare contro la polizia dopo la morte di George Floyd abbiano operato da accelerante del contagio, soprattutto nei grandi centri urbani. Unite al tutto la contabilità dei tamponi, molto simile ai conti di Parmalat o Wirecard e il gioco è fatto. Oppure una notizia legata a una sperimentazione del vaccino che starebbe fornendo buoni risultati preliminari. Oppure ancora un’apertura di credito della Cina ad acquisti agricoli, dopo che il comparto alimentare ha patito grosse perdite legate proprio ai problemi da lockdown sulla catena di fornitura e distribuzione. E non serve certo che quelle stesse notizie siano vere: basta che siano ovunque e appaiano almeno verosimili. Virali appunto, proprio come il virus. Devono colpire nel mucchio.

Non serve l’effetto chirurgico della notizia vera, autorevole e confermata, occorre il caos della bomba a mano nello stagno. Inutile, eccessiva. Ma perfetta per far saltar fuori tutti gli animali nascosti nella boscaglia. E lo stesso processo vale per gli acquisti di massa sui minimi, quelli designati ad hoc proprio per la clientela retail e gli algoritmi. Se il mercato scende troppo, ovviamente in chiave di ciclica purga da eccessivi effetti bolla, poi salta fuori la notizia in grado di farlo ringalluzzire: a quel punto, l’occasione si fa ghiotta due volte. Primo, perché apparentemente sostenuta dalla novità emersa attraverso i media. Secondo, perché il trend va ia innescarsi in un contesto di quotazioni a saldo, visti i corsi al ribasso. Quindi, una tentazione a cui non si sa resistere. E non importa se le valutazioni macro generali ti vorrebbero lontano mille miglia da quel titolo azionario: l’effetto magnete della disinformazione è imbattibile. E il gioco è fatto. È funzionato con Al-Qaeda e l’Isis, in chiave di lotta al terrorismo e quindi di corsa alla “messa in sicurezza” delle nostre società, troppo aperte a causa della globalizzazione. È funzionato con il flip-flop continuo durante le trattative farsesche su dazi e tariffe fra Cina e Usa, di fatto sostanziatesi in nulla a livello concreto. Sta funzionando ora con il Covid, il quale non a caso ha portato in dote l’arma segreta e preventiva della seconda ondata, la quale potrebbe scatenarsi – a detta di tutti i virologi – con l’arrivo dei primi freddi autunnali: timing perfetto per le presidenziali. O, se vogliamo vedere la questione in chiave europea, per il commissariamento di qualche Stato sull’orlo del default.

Nemmeno a dirlo, le Banche centrali ricopriranno ancora un ruolo di primo piano in queste dinamiche, pronte ad andare over the top, anche in territori non solo finora inesplorati, ma addirittura impensabili. E attenzione, perché questo grafico ci mostra come già oggi il laboratorio del dottor Frankenstein del monetarismo si sia decisamente portato avanti con il lavoro.

Lo stimolo globale atteso solo per il 2020 da parte delle Banche centrali dei Paesi cosiddetti G-6 (Bce, Fed, Bank of Japan, Bank of England, Bank of Canada e Reserve Bank of Australia) è atteso al livello folle di 18,3 triliardi di dollari, di cui 10,4 di stimolo fiscale e 7,9 di stimolo monetario. Per mettere la questione in prospettiva, si tratta del 20,8% del Pil mondiale! E, cosa ancor più folle, quasi tutto già messo in campo in soli tre mesi, da metà marzo a oggi! Cos’altro si può mettere sul tavolo? L’helicopter money, ad esempio. Tanto per dare al popolino l’illusione che il potere pensi a lui, lo mantenga.

Tranquilli, non è questione di se ma solo di quando, perché i deficit in qualche modo vanno finanziati. E camuffarli da lotta alla povertà e alle diseguaglianze sociali fa sempre presa, anche sugli spread e sui rating. Il grande inganno si sta disvelando, ormai senza più ritegno, né vergogne residue. Si cerca soltanto di salvare un pochino le forme, quelle proprie necessarie e rituali. Per il resto, tanto per usare un termine poco elegante, si sta letteralmente sbracando. Ma la gente non se ne accorge, occupata com’è a diventare milionaria trattando titoli decotti su Robinhood o – a turno – ad aver paura di esplodere in un attentato dell’Isis in metropolitana, a colpevolizzare la Cina per l’aumento dei prezzi degli alimentari o a chiudersi in casa per evitare di finire in terapia intensiva per il Covid e la sua seconda ondata.

Domenica, Chesapeake, gigante petrolifero texano delle cui disgrazie vi ho parlato recentemente attraverso grafici dei suoi bond, ha gettato la spugna: Chapter 11, apertura delle procedure di bancarotta. Era la punta di diamante della rivoluzione shale oil, oggi porta in libri in tribunale con 9,5 miliardi di debiti ed equity che vale virtualmente zero. Fine del sogno, ennesimo default di questo 2020. Di cosa pensate che abbiano parlato, però, i tg negli Usa o in Europa? Di questo o del rischio di seconda ondata del Covid e della nuova chiusura dei bar in Texas e Florida?

Volete sapere qual è il vero problema, quello che costringe il master of puppets del mercato a questi giochini? Ce lo mostra questo grafico, dal quale si evince che nella partita a scacchi globale su chi dovrà gestire il banco nei prossimi decenni, lo scorso 21 giugno la Cina ha compiuto la classica mossa del cavallo: ha mantenuto fermi i tassi sui cosiddetti Prime loans a 1 e 5 anni, rispettivamente al 3,85% e 4,65%.

Tradotto, ha nascosto il proprio gioco rispetto alla volontà della Pboc di intervenire all-in in supporto dell’economia con un’alluvione di liquidità, unendosi così di fatto al carro stampante dei colleghi del G-6. Pechino ha rispedito la palla nella metà campo della Fed, conscia del fatto che il cosiddetto impulso creditizio cinese è ciò che fino al 2018 ha permesso al meccanismo disfunzionale del Qe perenne e strutturale di garantire all’1% del mondo di arricchirsi e al 99% di non sentirsi impoverito. La Cina fornisce liquidità pressoché illimitata al sistema, l’Occidente in cambio ne importa la deflazione da sovra-produzione. Insomma, la pace sociale attraverso il monetizzazione del debito. Ora la Cina ha schiacciato il tasto pausa e attende la prima mossa dagli Usa, già ampiamente oltre mandato con l’operatività della Fed e in pieno clima elettorale. Sarà un autunno caldo. Bollente. E anticipato per molti, come cantavano le Bananarama negli anni Ottanta, da quella che rischia di essere davvero una cruel summer.