La preparazione dell’October surprise è entrata nel vivo. E si muove ad ampie falcate, ancorché alla chetichella e con passo felpato. Il caos interno negli Stati Uniti è ormai da allarme rosso, come plasticamente mostrato da quanto accaduto a Los Angeles e dalla reazione degna di Walker Texas Ranger di Donald Trump via Twitter. Oggi e domani, poi, la Fed si riunisce per decidere se far crollare il mercato e garantire a Joe Biden una chance di approdare a Pennsylvania Avenue o se spianare del tutto la strada alla rielezione del Presidente in carica, mettendo mano ancora una volta alla cassetta degli attrezzi, dopo un mese di agosto senza acquisti di Etf che ha non poco mandato in fibrillazione le zombie firms di tutto il Paese e i loro bonds in formato carta igienica. Ma occorre prestare attenzione ad altro, temo. E uso questo verbo perché quanto accaduto nel fine settimane, in ossequio al principio della destabilizzazione silenziosa, potrebbe avere effetti collaterali molto pesanti. E a breve.



Il motivo della mia preoccupazione sta tutto in questi due grafici, dai quali si capisce come Oltreoceano siano entrati in piena modalità da European playbook, tanto per cambiare. Insomma, usare l’Europa come tavolo da ping-pong su cui giocare partite di potere tutte interne. Il primo grafico mostra come alla Bce stiano già volando gli stracci. E che un epilogo ai materassi, stile Mario Puzo, sia ormai alle porte.



Christine Lagarde è al capolinea. La sua totale incapacità, il suo palese essere unfit per il ruolo è stato clamorosamente svelato dal mezzo ammutinamento già in atto all’Eurotower. Poco importa se qualcuno, volutamente, ha sabotato la linea ufficiale della Banca centrale sull’euro forte, mandando in pieno cortocircuito la discussione e minando alle basi la credibilità dell’istituzione in un momento simile. Il problema è che un capo non può permettere che accadano certe cose, non può aver già perso il controllo del mezzo, nemmeno a un anno dall’insediamento. Se avesse un minimo di dignità, madame Lagarde si sarebbe già dimessa. Perché non si può giocare con i destini di un intero continente, arrivando a cambiare posizione su un tema dirimente come il tasso di cambio della moneta unica nell’arco di tre giorni. E solo perché qualcuno, giustamente, ti ha fatto tana, stufo di accettare scelte devastanti per la sua economia.



Ve lo avevo detto che la pazienza della Bundesbank era agli sgoccioli. Et voilà. Come d’altronde, vi avevo detto che ora il problema verrà catalizzato dalla crisi francese, al netto dei 100 miliardi di ulteriore scostamento messi in campo dal Governo per cercare di arginare lo sprofondo economico: detto fatto, miracolosamente sono risorti come Lazzaro anche i Gilet gialli, oltretutto in piena seconda ondata di Covid e con un bell’assembramento nel centro di Parigi, molotov e scontri inclusi nel pacchetto. Le società superiori, i grandi Paesi, si vedono anche da questo: dalla loro capacità di manipolare le opinioni pubbliche. E all’Eliseo, c’è poco da fare, in questo sono maestri, altro che Ufficio affari riservati del Viminale.

Il capo della Bce non può passare dalla sottovalutazione dell’apprezzamento dell’euro del giovedì pomeriggio, oltretutto in un contesto formale come quello del punto stampa dopo il board, alla drammatizzazione della domenica, sottolineando come quel tasso di cambio vanifichi in parte gli sforzi messi in campo attraverso il Pepp. Troppo comodo. Nemmeno Luigi Di Maio riuscirebbe a toccare vette di incapacità e dilettantismo simili, ancorché la straordinaria disputa in atto sui quattro “calciatori” libici da liberare per ottenere lo sblocco del sequestro dei nostri pescatori stia fortemente guadagnando punti nella top ten del premio Metternich 2020. Ora, la questione è seria. Molto seria.

Non fosse altro perché la valutazione dell’euro sul dollaro incide pesantemente sul tenore di chi esporta in valuta comune europea: leggi, Germania. Ma anche l’Italia con le sue eccellenze. Da capire c’è solo una cosa, adesso: Christine Lagarde è un’incompetente oppure ha scientemente occupato quella sedia per perseguire finalità che non sono quelle del bene dell’eurozona? Qualcosa è successo, perché una crisi di fiducia in seno al board di questo livello non ha precedenti. Se non il Bounty.

Chi ha fatto saltare il banco, di fatto? Chi ha fatto tana alla numero uno? E, soprattutto, lo ha fatto unicamente per tutelare l’euro e cercare di mettere in difficoltà una leadership già sgradita a tempo di record o su “mandato politico”, ovvero svelare un coacervo di interessi eterodiretti in seno a una delle istituzioni fondamentali dell’Unione? Viene da chiederselo, non fosse altro per la contemporanea lotta di potere in seno al Governo tedesco – presidente di turno dell’Unione – rispetto all’ondata di maccartsimo da barzelletta legata al caso Navalny, casualmente finito nel dimenticatoio dei media a tempo di record, dopo che a sua volta Mosca ha alzato i toni e fatto saltare il banco del bluff di Berlino riguardo l’inchiesta indipendente.

C’è poco da stare tranquilli. E la conferma arriva dal secondo grafico, il quale mostra il tracollo della lira turca – pericolosamente in area del tipping point di 8,0 sul cambio con il dollaro – dopo l’inatteso downgrade di Moody’s occorso alla chiusura della Borsa di venerdì scorso. Una mossa a freddo, una revisione del rating non programmata. E pesantissima nel merito, poiché non solo la valutazione di Ankara è stata portata al livello senza precedenti di B2, ovvero cinque notches in territorio junk e al pari di Giamaica, Egitto e Ruanda ma l’outlook rimane negativo, motivato da un preoccupazione dell’agenzia di rating per “una possibile crisi nella bilancia dei pagamenti”. E stante il ruolo sempre più egemone a livello geopolitico della Turchia in Medio Oriente, quali conseguenze potrebbe avere una decisione simile, se davvero i mercati cominciassero a prezzare un loop di avvitamento al ribasso sulle dinamiche dei conti pubblici ben più grave delle croniche e cicliche crisi sulle riserve estere? Il caos, l’anticipazione del default. Situazione che, ovviamente, spingerebbe Recep Erdogan a difendersi. Da un lato utilizzando la retorica patriottica e la solita politica suicida della Banca centrale, bruciando riserve come legna in un camino a gennaio e dall’altro battendo cassa al suo bancomat preferito: l’Ue. E con quale arma di ricatto? L’immigrazione.

Casualmente, pochi giorni fa alcuni clandestini presenti sull’Isola hanno dato fuoco al campo profughi di Lesbo (giova ricordarlo, in ossequio al principio di verità e responsabilità), riportando la questione in grande stile sul palcoscenico proprio delle istituzioni Ue, le quali hanno finanziato a tempo zero la costruzione di un nuovo e più moderno hotspot. Vogliamo dimenticare poi le tensioni fra Turchia e Grecia, sempre di questi giorni, rispetto ai diritti di trivellazione, con tanto di esercitazioni congiunte nell’Egeo? Signori, siamo dentro un Risiko sempre più chiaro. Le tessere mancanti ormai sono poche, pochissime. Ma anche le più importanti, da qui al 3 novembre, data spartiacque per il mondo intero. Da che parte di schiererà la Turchia, ora? Cercherà a tutti i costi il perdono degli Usa, dopo lo sgarbo dell’acquisto di batterie anti-missile S-400 dalla Russia e i legami sempre più stretti con Pechino e quindi cercherà di infliggere più danno possibile a un’Europa già sulle ginocchia? Oppure, come accadde la scorsa estate, sarà proprio Pechino a rimpolpare le casse statali turche, sempre più esangui, di fatto sancendo una rottura in ambito Nato che non potrà rimanere senza risposta?

Sta accadendo di tutto. E alla velocità della luce. Perché in fatto di pretoriani statunitensi, occorre non scordare anche il sospetto irrigidimento della posizione di un sempre più caricaturale e instabile a livello politico interno Boris Johnson sul tema Brexit, ormai agli sgoccioli della sua deadline nei negoziati proprio con l’Ue. Insomma, siamo in guerra. Dichiarata. L’Europa è accerchiata da nemici e tensioni esterne e dilaniata al suo interno da corvi e ammutinamenti, tutti da ricondurre a un copione e a una regia precisa. E di cosa parla Bruxelles, di cosa si preoccupa? Della Bielorussia e del caso Navalny. Strano, alla luce delle criticità da pelle d’oca che ho appena elencato, non vi pare?

Anzi, no. In effetti, ieri si è tenuto anche il vertice Ue-Cina con al centro del dibattito il tema cardine del trattato sulla reciprocità degli investimenti, talmente caldo da far scomodare Xi Jinping in persona, ospite quantomai roboante nella capitale belga. E, guarda la combinazione, in contemporanea salta fuori un bel documento esclusivo sulle attività di dossieraggio del Dragone contro politici e imprenditori italiani. Non a caso, se esiste una vera spina nel fianco europea per il Dipartimento di Stato Usa, questa è rappresentata proprio dall’atteggiamento troppo filo-Pechino dell’esecutivo Conte e della sua componente grillina, titolare della poltrona calda della Farnesina. Ovviamente, solo mere coincidenze temporali, ci mancherebbe. Attenzione alla Turchia, perché temo che la mossa del cavallo arriverà da lì. E occhio anche alle decisioni della Fed, fra oggi e domani. L’eventuale mandante del caos senza precedenti in seno all’Eurotower, potrebbe più o meno involontariamente svelarsi proprio in quel contesto. E non attraverso frasi sibilline. Ma mettendo una bella pistola sul tavolo, stile Scarface.