Le borse americane ieri hanno continuato i rialzi dopo che l’ultimo dato sull’inflazione, basso e inferiore alle attese, ha rassicurato gli investitori. Da diverse settimane le preoccupazioni su un incremento dell’inflazione sono in primo piano per il timore che un incremento dei prezzi possa frenare l’attività delle banche centrali a sostegno dei mercati e determinare un rialzo dei tassi. Il dato di ieri sull’inflazione americana è sufficiente per un sospiro di sollievo, ma la vicenda è più complicata di quanto appaia.
Già a luglio “Bloomberg economics” si era accorta che l’inflazione per i redditi medi e medio bassi era sensibilmente superiore a quella “subita” dai redditi alti. A definire il problema con maggiore completezza è stata una ricerca pubblicata da Alberto Cavallo della Harvard Business School. Il Covid ha cambiato le abitudini e le esigenze di acquisto dei consumatori, per esempio sulle spese relative ai viaggi o ai vestiti, e quindi si può ricostituire un indice Covid più attinente alla nuova realtà. L’inflazione “Covid” è sensibilmente superiore a quella ufficiale e colpisce particolarmente i redditi più bassi perché gli incrementi di prezzo maggiori si registrano, per esempio, sugli alimentari; sono i beni meno discrezionali e che costituiscono una parte maggiore delle spese mensili proprio per le categorie meno abbienti e, in generale, per il ceto medio. L’ultimo esempio di questo fenomeno si può rintracciare all’interno del dato di gennaio dell’inflazione tedesca: l’inflazione è salita solo dell’1,0% ma la componente alimentare del 2,2% e all’interno di questa categoria, carne, frutta e verdura, hanno incrementi superiori al 3%.
I dati “ufficiali” in sostanza sottostimano l’impatto dell’inflazione per una parte molto importante della popolazione sia perché le abitudini di acquisto sono cambiate, sia perché l’incremento colpisce i redditi medi e bassi.
È possibile che quello a cui stiamo assistendo sia un fenomeno destinato a ridursi se e quando ci si avvierà verso una normalizzazione oppure quando gli effetti della pandemia sull’economia eserciteranno almeno una pressione al ribasso sui prezzi. È possibile però che, “finalmente”, dopo dieci anni dalla crisi Lehman le politiche delle banche centrali stiano generando inflazione. Per le banche centrali questo è un danno collaterale sopportabile sia perché non si possono alzare i tassi, sia perché con l’inflazione si pensa di sgonfiare i debiti. È un approccio pericoloso soprattutto se l’azione delle banche centrali perdesse qualsiasi mediazione e freno con l’avvento della moneta digitale che consente di evitare la prudenza alla concessione e alla richiesta di credito di banche e famiglie e toglie qualsiasi vincolo di spesa agli Stati.
L’economia oggi non è “libera”, ma è vincolata sia dalle scelte su chiusure e aperture, sia dai massicci interventi statali che, per esempio, salvano le compagnie aeree, ma lasciano per strada artigiani e commercianti oppure dagli ingenti investimenti pubblici in tecnologie poco mature. I debiti statali salgono e non si pone più il problema se la parte pubblica dell’economia continua a spendere come dodici mesi fa mentre il tasso di disoccupazione reale è ampiamente sopra il 10%. Questo è uno scenario diverso da quello che si è aperto dopo il 2008 perché i Governi avevano comunque il timore di un rialzo dei tassi e perché famiglie e intermediari agivano mettendo limiti alle politiche monetarie delle banche centrali non fidandosi del ciclo economico. Questo scenario è cambiato radicalmente e si avvicina il momento, con le valute digitali, in cui le politiche delle banche centrali non avranno più mediazioni coprendo gli interventi governativi senza limite.
Le politiche fiscali, monetarie e di investimenti pubblici hanno effetti immediati su chi li riceve per prima e ritardati per tutti gli altri. Nel frattempo l’inflazione arriva subito per tutti in un contesto che rimane di forte “dirigismo” in cui le risorse vengono allocate indipendentemente dalla produttività dei settori. Nel frattempo i numeri ufficiali sottostimano anche di due o tre volte l’inflazione vera patita da una grande fetta delle famiglie.
Il rischio, magari dopo una pausa nella seconda metà dell’anno, è di essere solo all’inizio di un nuovo paradigma di prezzi in aumento e crescita anemica con i prezzi che colpiscono di più e più in fretta proprio le categorie più deboli. È un problema che dovrebbe far riflettere i governi quando prendono decisioni di politica economica.
C’è poi una questione politica. Questo fenomeno, che pure è stato più contenuto dopo la crisi Lehman rispetto a quello che si prospetta ora, si è sfogato elettoralmente sui “sovranismi”, solo che i sovranismi oggi non ci sono più e sono stati, nei fatti, espulsi dal sistema. È inevitabile chiedersi come si possa sfogare questa volta se l’inflazione asimmetrica vista nel 2009, si pensi alla bolla degli asset finanziari e immobiliari, si ripresenta oggi più forte e per un periodo indefinito di tempo. Il rischio è che si sfoghi fuori dai parlamenti e dalle cabine elettorali.