La parola d’ordine del momento è green. Qualsiasi tipo di scelta politica o indirizzo di spesa deve essere declinato a livello di sostenibilità ambientale, al fine di ottenere la patente di efficacia ontologica e aprioristica: non importa se in nome dell’ecologismo più o meno estremo vengono emessi bond senza rating, come mostra il grafico più in basso, i quali ingrassano con le commissioni per la sottoscrizione le stesse banche contro le quali i soliti furbetti oggi fanno campagna demagogica a favore del contante e in spregio della tracciabilità dei pagamenti elettronici, perché forieri di profitti occulti per i banchieri cattivi.



E non stiamo parlando di controvalori da poco, perché come mostra questo banner della massima istituzione no-profit del settore, la Climate Bonds Initiative, dai 170 miliardi di dollari di controvalore del dicembre 2018, il mercato dei cosiddetti green bonds quest’anno supererà quota 200 miliardi ed entro i primi mesi del 2020 punta addirittura all’obiettivo di 1 triliardo.



Parliamo di numeroni, non più di esperimenti di nicchia. Un bel business, insomma, in crescita vertiginosa e con le istituzioni finanziarie – banche e simili – prime delle fila per numero di emissioni.

Tutti ecologisti di colpo? E non importa se in nome di Greta vengono creati interi impianti di spesa pubblica, il più delle volte totalmente improduttivi o addirittura basati su criteri di leva. L’importante è l’aggettivazione ambientale. Acritica. Bene, visto che questo è il tema, ho voluto informarmi. E la cronaca di questi giorni mi è venuta incontro, addirittura fornendomi non solo cifre prospettiche, ma anche un piano che garantirebbe al pianeta di guadagnare 15-20 anni di tempo per attrezzarsi a una vera e definitiva lotta alle emissioni di gas serra. E sapete quanto costerebbe, alla faccia di tutti i Green new deal del mondo? Trecento miliardi di dollari. Avete letto bene, 300 miliardi. Ovvero, il Pil del Cile. O, se preferite, 60 giorni di spese militari a livello globale. Direi un obiettivo più che fattibile, stante il livello di allarme climatico percepito ormai ovunque.



E a dirlo non è uno sprovveduto, bensì Barron J. Orr, scienziato e capo-progetto della Convezione per la lotta alla Desertificazione delle Nazioni Unite. Ecco le sue parole: “Semplicemente, con gli anni abbiamo perso di vista il ruolo e la funzione biologica del suolo terrestre. Se cambiassimo approccio, trasformeremo la terra in una parte sostanziale della risoluzione del problema climatico”. Insomma, le vecchie ricette dei contadini. Lo conferma René Castro Salazar, assistente direttore generale della Fao, a detta del quale “al mondo ci sono 2 miliardi di ettari di terreno totalmente degradati da abuso, utilizzo eccessivo per il pascolo, deforestazione o altri fattori riconducibili alle attività umane. Ma 900 milioni di quegli ettari possono essere riconvertiti, salvati e riutilizzati”. E cosa si potrebbe ottenere da un giusto utilizzo di quella superficie? “Sufficiente biomassa per stabilizzare le emissioni di CO2, la più grande fonte di gas serra, per 15-20 anni appunto, permettendo all’industria tecnologica di trovare soluzioni più definitive ed efficaci al contrasto del cambiamento climatico. Con la volontà politica e circa 300 miliardi di investimento, è fattibile”, dice Castro Salazar.

Insomma, non servono chissà quali investimenti. Ad esempio, non servono i triliardi sparati a caso dal Green new deal originario di Alexandria Ocasio-Cortez e nemmeno i 60 miliardi che qualcuno vorrebbe stanziati dalla Germania per un piano di spesa pubblica “verde” e sostenibile, dopo anni di surplus. Basterebbe la moratoria di un mese di acquisti in armamenti a livello globale: punto. Basterebbe la volontà politica, come ha detto Castro Salazar. Il problema è: c’è davvero quella volontà politica o, come temo, l’ambiente è stato tramutato mediaticamente nell’alibi per proseguire con politiche di stimolo che garantiscano una maschera socialmente accettabile al viso ormai deturpato da distorsioni e insuccessi del Qe globale? Perché i due scienziati hanno parlato chiaro: non servono investimenti miliardari per guadagnare 15-20 di tempo alla deriva climatica, basta intrappolare le emissioni in qualcosa che già abbiamo e che va solo riconvertito e messo in grado di fare il suo lavoro di “polmone” e “filtro”: il suolo terrestre.

Io non sono un climatologo, però mi fido del giudizio di chi è chiamato dall’Onu a sovrintendere a certe istituzioni. Se così fosse, quindi, non basterebbe sedersi a tavolino un weekend, dare vita a un G20 speciale e mettersi d’accordo? Fa così schifo l’idea di guadagnare una ventina di anni nella lotta a quello che viene visto come il problema più grave, urgente e stringente della nuova generazione e delle prossime? Se invece questa teoria è una panzana, si faccia il favore di mandare a casa i due scienziati che la sostengono, visto che in questo modo screditano sia l’Onu che la Fao, gettando fondi in studi inutili. Èsemplice, basterebbe dire le cose come stanno. Invece, regna la propaganda.

A me di Greta Thunberg che mostra la faccia indignata e colma di rabbia davanti ai potenti del mondo al Palazzo di Vetro non interessa assolutamente nulla, per il semplice fatto che è una studentessa 16enne incapace di conoscere la realtà scientifica dei fatti e offrire soluzioni. Ma i due personaggi che ho citato, no. Loro sono plurilaureati e messi a capo di enti transazionali preposti a quel tipo di ricerca: perché nessuno dice che bastano 300 miliardi di dollari per garantire al mondo una moratoria di 15-20 anni dall’aggravamento della situazione? Poi si penserà a investimenti e stanziamenti, si penserà a finanziare la ricerca su larghissima scala: perché invece ogni governo, in ordine sparso e ovunque nel mondo, pensa di risolvere il problema tassando plastica, merendine, singole categorie di autoveicoli? Forse perché in realtà deve solo finanziare un deficit sempre crescente, questione che con gli alberi e l’ambiente ha ben poco a che spartire? Se così fosse, allora capite che il dubbio riguardo un’agenda e una finalità nascoste dietro tutti questi allarmi non sarebbe poi così peregrino e campato in aria. E questa logica vale per tutto.

Prendete il discorso di addio di Mario Draghi alla Bce, ad esempio. L’ex governatore ha un merito indubbio: ha letteralmente salvato l’eurozona dal rischio – più che concreto – di implosione e disintegrazione. Dopodiché, però, ha anche spalancato la strada a distorsioni enormi. Guardate in questi grafici: la sua legacy, la sua eredità dopo otto anni di guida dell’Eurotower, una rappresentazione plastica di quanto ottenuto.

Primo, al netto della retorica sui miracoli “alla portoghese”, possiamo dire senza tema di smentita che il crollo dei rendimenti sovrani è stato artificialmente ottenuto attraverso il Qe dell’Eurotower. Solo quello. Non a caso, facendola molto semplificata, non più tardi di questa settimana, l’Europa ci ha chiesto ancora conto sulle tempistiche troppo opache e dilatate di riduzione del nostro debito. I problemi strutturali del vecchio Club Med non sono cambiati, si sono solo rifatti il maquillage. E grazie a cosa? Anche e soprattutto alla facilità e ai minori costi di finanziamento del debito sul mercato, dovuti unicamente agli acquisti Bce e non a miglioramenti macro.

Veniamo poi al secondo grafico, ovvero alla contrapposizione fra aumento dello stato patrimoniale della Bce e prospettive inflazionistiche, queste ultime direttamente legate al Qe, poiché l’obiettivo statutario degli acquisti era proprio il raggiungimento di un tasso di inflazione attorno al 2%. Un fallimento, inutile usare tanti giri di parole.

Terzo grafico, l’ultima criticità emersa: ovvero, l’impatto dei tassi negativi sul comparto bancario. Argomento che Mario Draghi, anche al netto dell’ammutinamento dei Paesi del Nord in seno al board del settembre scorso, ha voluto toccare nella sua conferenza stampa finale, definendo “positivo” l’esperimento di costo del denaro sotto zero. Il grafico dice altro. E non tanto e non solo a livello di performance dei titoli azionari dei principali istituti di credito europei, bensì a livello generale, poiché quest’ultima criticità è andata a sommarsi – nel momento peggiore – al più generale contesto di stagnazione nel meccanismo di trasmissione del credito, il vero fallimento del Qe. Ovvero, il denaro che le banche ottenevano piazzando titoli obbligazioni a Francoforte in seno al programma di stimolo non sono finiti in attivi verso l’economia reale, imprese e famiglie, bensì all’assestamento di bilancio e all’acquisto, almeno nel caso italiano, di titoli di Stato. O azioni. Comunque, non dove dovevano realmente andare, al fine di riattivare crescita e occupazione.

È la stessa logica dei 300 miliardi sufficienti a calciare in avanti il barattolo del contenimento del problema climatico per un ventennio: non è strumentale alle reali finalità dei governi. Così come queste criticità della gestione Draghi non sono strumentali all’unico obiettivo che i Paesi del Sud Europa necessitano di ottenere: la continua, costante e strutturale soppressione artificiale degli spread, l’annullamento del concetto stesso di rischio legato ai debiti pubblici. Se passa l’idea che 300 miliardi siano sufficienti per tamponare la situazione, chi accetterà la logica del Green new deal da trilioni di dollari o euro? Chi accetterà uno stillicidio di tasse o balzelli su merendine, bottigliette di plastica o quant’altro, quasi fossero l’unica via percorribile per garantire un futuro ai nostri figli? E se davvero si spiegasse, al netto della sua necessità emergenziale post-2011, quale è stato l’unico, vero obiettivo di lungo termine ottenuto dal Qe, una volta messa al sicuro l’intangibilità dell’euro, chi accetterebbe acriticamente la sua prosecuzione sine die, il suo mantra da panacea assoluta? Dissimulazione, l’unica, vera legge imperante. Destinata a regalarci solo guai.