Mentre il Paese è occupato nel consueto e rituale casus belli da 25 aprile e la stampa autorevole, dopo aver operato da grancassa all’AI per mesi, si scorda di rendere noto come i titoli Tech Mega Cap abbiano bruciato in una settimana tutti i guadagni da inizio anno (1 trilione di dollari, di cui 400 miliardi solo nell’ultima seduta di venerdì), permettetemi di parlare d’altro.
Nella fattispecie, di questo. Il Fondo monetario internazionale ha appena pubblicato un interessante report dedicato alle dinamiche di debito pubblico dei Paesi dell’Africa sub-sahariana e ciò che emerge è un quadro decisamente confortante.
Dopo anni di ratio debito/Pil tornate a salire, da quattro a questa parte si nota una decisa stabilizzazione. Percepita come talmente strutturale da vedere alcuni investitori esteri pronti a scommettere su questi Paesi e le loro potenzialità di crescita. Un quadro decisamente interessante. Per varie ragioni. In ultima analisi, quella migratoria. Se a casa mia ho la possibilità di crearmi un avvenire, difficilmente rischio la pelle su una zattera di fortuna per arrivare a Lampedusa. Quantomeno, il numero di chi tenta la sorte a caro prezzo pare destinato a calare.
C’è però un lato nascosto dell’intera vicenda che deve far riflettere. E sarebbe meglio farlo ora, poiché più si aspetta, più ci si riduce a tamponare uno tsunami con l’asciugamani. Chi sta finanziando quei Governi africani, garantendo alle dinamiche di debito una stabilizzazione che potrebbe aprire strade a soluzioni classiche di mercato, debitamente foraggiate da un Occidente sempre in caccia di occasioni? La Cina. La quale, chiaramente, non opera perché animata da puro spirito del buon samaritano. Colonizza. Silenziosamente. Con l’approccio buono del creditore e non dello strozzino. Ma chiaramente, chiede garanzie. Apparentemente meno stringenti di quelle dello stesso Fmi, il quale pubblica report del genere semplicemente per pulirsi la coscienza e per cercare di marcare il territorio in modalità cagnolino che bagna gli angoli delle strade.
La Cina stacca assegni munifici. Pronta cassa. Ma mette le mani sulle commodities. E sulle infrastrutture. In un territorio tanto vergine quanto immensamente ricco di quelle materie prime di cui l’agenda green non può fare a meno. Ma anche di quelle meno sostenibili e votate alla transizione. Un domani, quel debito stabilizzato diverrà volano. Nel frattempo, in quei medesimi Paesi saranno nati porti, aeroporti, strade, dighe, utilities energetiche. Tutto ciò che serve affinché l’investitore decida di diversificare. E cogliere l’opportunità. Ovvero, la Cina sta operando con almeno due decenni di vantaggio sul mondo cosiddetto sviluppato, il cui unico approccio con l’Africa è quello dei vulture funds o dell’accoglienza e/o respingimento dei barchini.
Ora a ruota della Cina è arrivata la Russia, la quale ha trasformato lo strategico Niger in un suo protettorato a tutti gli effetti. E l’addio francese al Mali apre nuovi scenari. Il Niger è geograficamente fondamentale, poiché tutte le infrastrutture energetiche di petrolio e gas che dalla Nigeria arrivano al Maghreb, passano da lì. E si sa, il Maghreb è il rigassificatore naturale del Sud Europa. Non a caso, Giorgia Meloni sembra ormai aver preso cittadinanza tunisina. Peccato che da ogni viaggio torni cariche di promesse. Ma solo quelle. Esattamente come da Washington è tornata solo con il bacio in fronte di Joe Biden. E la promessa di rating invariata da parte di Standard&Poor’s. Gli investimenti, le multinazionali dei chip li fanno altrove, però. Germania e Polonia. Mentre la Francia ormai opera in Texas come se fosse in casa sua, stante l’acquisizione strategica da parte di TotalEnergies della totalità della sua controllata statunitense nel mercato LNG. L’Italia, porta del Mediterraneo e primo approdo dell’immigrazione africana, guarda.
Alla luce di questo, come valutare a mente fredda lo stralcio del memorandum di intesa con la Cina che Giorgia Meloni ha pedissequamente compiuto proprio per compiacere gli Stati Uniti? Solo tre giorni fa è giunta la notizia del fatto che la casa automobilistica cinese Chery abbia scelto la Spagna. Il partner di DR Motors aveva infatti ventilato l’ipotesi di aprire uno stabilimento in Italia, ma ora è ufficiale la doccia fredda: la sede europea sarà a Barcellona, nell’ex sede di Nissan. E la produzione sarà avviata già a partire dal quarto quadrimestre dell’anno, tanto che l’obiettivo della joint-venture sarebbe quello di produrre 150.000 veicoli all’anno entro il 2029, diventando così una delle principali strutture di esportazione a livello mondiale. A livello occupazionale, 1.200 posti di lavoro garantiti. E totale riassorbimento degli esuberi Nissan. Pedro Sanchez ringrazia sentitamente i geni della diplomazia italiana.
Ora date un’occhiata a quest’altro grafico, fresco di pubblicazione all’interno del dossier di proiezione sui conti pubblici Usa del Congressional Budget Office. La ratio debito/Pil statunitense toccherà quota 100% entro l’anno prossimo e sfonderà 150% entro i prossimi 25 anni, stante i trend attuali. I quali parlano di 1 trilione di debito in più ogni 100 giorni. E spese per soli interessi annuali che hanno superato la linea Maginot del trilione di dollari.
Siamo sicuri che questo sia il modello da seguire e contrapporre all’innegabile indebitamento strutturale cinese? Perché al netto di dinamiche da Qe sistemico come quelle che stiamo vivendo, forse sarebbe consigliabile un approccio più pragmatico. Alla spagnola, per capirci. E non certe alzate di ingegno eterodirette, oltretutto compiute en plein air alla vigilia del bilaterale Ue-Cina e con Xi Jinping sulla scaletta dell’aereo. Se poi la ricompensa è un bacio in fronte, peggio ancora. Ma si sa, qui ora la priorità è dipingere Antonio Scurati come Bertolt Brecht. E Serena Bortone come Rosa Luxemburg. Poco importa di cosa stia accadendo, silenziosamente ma in maniera ormai ineluttabile, nel sottopancia dei conflitti farsa e delle cortine fumogene mediorientali o post-sovietiche. L’America stanzia soldi solo per stamparli, generando deficit che si può poi sterilizzare attraverso il warfare. Tanto trattasi di partita di giro. E convenienza politica. Ma il vero Risiko è altrove. E la Cina ormai ha già conquistato mezzo mondo.
Qualcuno lo ha capito. Come Olaf Scholz e Pedro Sanchez. E scende a patti. Qualcuno, invece, sta insaponando la corda cui si impiccherà. Chiedere referenze al ministro Urso dopo l’affaire Chery.
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