La notizia in sé era ampiamente attesa e prezzata. La Banca centrale europea ha alzato i tassi di interesse di un altro mezzo punto, portando quello benchmark al 3%, il massimo dalla crisi finanziaria. Ciò che qualcuno avrebbe volentieri evitato è invece il richiamo, apparentemente chiaro e perentorio, a un nuovo ritocco all’insù al board di metà marzo. Con ogni probabilità, si tratterà solo di un quarto di punto, nonostante l’indicazione di altri 50 punti base offerta in maniera decisamente irrituale alla stampa, prima ancora della conferenza di Christine Lagarde. Nulla più che un segnale, una recita a soggetto prima della pausa obbligata. Se saranno 25 punti base, però. Se invece il board farà seguire alla promessa, i fatti, allora la questione cambia.
Ciò che conta, infatti, è lo stato di salute in cui l’Italia arriverà con i suoi conti e il suo spread a quell’appuntamento. Nel giorno della decisione, infatti, Nomisma rendeva noto come nel 2023 sono attese 100.000 transazioni in meno relative ad acquisti immobiliari. E mentre i tassi variabili esplodono e lo spostamento di massa verso la locazione farà giocoforza salire il prezzo anche degli affitti, ecco che questo grafico fotografa la situazione dell’Eurozona: un crollo delle richieste di mutuo, appunto.
E attenzione, il sondaggio che è alla base di questo grafico elaborato da Bloomberg è ovviamente precedente sia all’ulteriore aumento di ieri, sia all’annunciato piano di nuovo rialzo anche a marzo. Sempre in contemporanea, ieri mattina il titolo di apertura del Sole 24 Ore era un vero e proprio grido d’allarme relativo alla tenuta di solvibilità delle aziende edili intrappolate nella cessione dei crediti del superbonus. Scelta non casuale. Così come il timing del bel report di Nomisma sul comparto.
Ora, attenzione allo spread. Perché in apertura di contrattazioni ieri mattina è passato, di colpo, dai 185 punti base della chiusura precedente al massimo di 198. Salvo poi ripiegare. Tradotto, qualcuno sul mercato forse non ha gradito quel riferimento così diretto, roboante, assertivo e rivendicativo legato al calo del differenziale sul Bund contenuto nel messaggio di Giorgia Meloni per i primi 100 giorni di Governo. E nel giorno in cui tutti i riflettori, anche politici, erano appunto puntati sui rischi legati ai tassi di interesse, ecco arrivare la smentita nei fatti di quella grandeur fuori luogo del Governo. Come dire, lo spread non dipende dalle politiche di palazzo Chigi. Dipende solo dalla Bce. Messaggio che implicitamente ne porta con sé un altro: evitiamo quindi alzate di ingegno, proprio ora che si entra nel vivo della decisione in sede europea rispetto ai piani sostanziali. Alla ciccia. Ovvero, gli aiuti di Stato e il fondo sovrano. Soprattutto i primi, poiché vedrebbero Francia e Germania recitare la parte del leone e l’Italia costretta a fare i conti con una realtà decisamente ingestibile. Se non attraverso uno scostamento di bilancio che, se approvato, comporterebbe l’immediata calendarizzazione della ratifica parlamentare del Mes. Prodromo a sua volta di un possibile approccio al fondo Tpi, quantomeno per tranquillizzare ex ante proprio i mercati del debito.
Insomma, il balzo dello spread di ieri mattina è stato il trailer del film che dovremo giocoforza guardare nelle prossime settimane. Anzi, di cui saremo protagonisti. Senza controfigura. E se non si seguirà il cronoprogramma che ho appena elencato, quota 250 sarà garantita entro il prossimo board Bce. A quel punto, se davvero saranno altri 50 punti base di aumento, si entrerà direttamente in spirale 2011. Capito perché è tornato lo spauracchio anarchico, come in un triste e inquietante déjà vu del 1969? Siamo in trappola. E per quanto il Governo le stia provando tutte per sviare l’attenzione e creare cortine fumogene, il no di Ursula Von der Leyen a nuove emissioni comuni di debito ha tagliato nettamente le gambe a ogni speranza di palazzo Chigi e palazzo Koch per una navigazione tranquilla.
Da qui a fine dicembre, l’Italia deve rifinanziare debito a medio-lungo termine per circa 400 miliardi. E già oggi, in asta i rendimenti da corrispondere sono stati ben superiori a quelli garantiti dallo scudo Bce sul secondario. Se il dibattito europeo sugli aiuti di Stato, di fatto pietra tombale del Recovery fund energetico richiesto da Roma per finanziare direttamente deficit, dovesse operare da dinamo di tensione sul nostro debito, ecco che l’appuntamento di marzo opererebbe in combinato congiunto con l’allarme che giunge dal comparto edilizio. E da quello bancario che ne condivide criticità, sia a livello di mutui (e sofferenze) che di crediti legati al superbonus. Prepariamoci quindi a una campagna primaverile di allarmi su larga scala, dall’eversione anarchica alla necessità di armare l’Ucraina fino ai denti per evitare che l’Armata Rossa arrivi fino alle porte di Lisbona. Perché il redde rationem stavolta sta arrivando davvero. Ma occorre essere onesti: Giorgia Meloni e il suo Governo opereranno soltanto da detonatore di una carica che è stata scientemente piazzata alle fondamenta dei nostri storici disequilibri di bilancio da Mario Draghi. Per portare a compimento l’operazione serviva però un Governo di incapaci, dilettanti e assoluti debuttanti del potere. L’addio di Mario Draghi e la fretta con cui il Quirinale ci ha mandati al voto, lo hanno reso possibile.
Tutto torna, ogni tessera sembra combaciare alla perfezione. Sia nei contorni e nei profili, sia nella tempistica con cui viene posata al suo posto. Con un’inflazione ancora altissima, un potere d’acquisto devastato irrimediabilmente, nessuna possibilità di sforamento indolore dei conti e una bolla immobiliare pronta a esplodere, Roma si prepara al commissariamento forzato. Ci credevamo i più furbi, ci credevamo alla guida dell’Europa post-Merkel. Siamo al punto di prima ma con i conti ormai non più truccabili.
Prepariamoci, insomma. La litania dello Stato sotto attacco è destinata ad aumentare di intensità e volume, stante il frastuono devastante che il processo di ristrutturazione in fieri porterà con sé e che occorrerà quindi silenziare. E appena partiranno i licenziamenti di massa, forse occorrerà anche il classico salto di qualità. Tanto per evitare scena di stampo francese nelle piazze, al netto di un Reddito di cittadinanza con i mesi contati. Il solito copione italiano, insomma.
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