Ultimo articolo di questo disgraziato 2020. Paradossalmente, il clima in cui nascono queste righe dovrebbe essere di ottimismo. In sede europea sono stati sbloccati tutti i veti e i fondi del Next Generation Ee sono formalmente pronti al loro esborso, la Bce ha ampliato in tal modo il programma di acquisto obbligazionario da aver messo a dormire lo spread almeno per qualche altro trimestre e l’arrivo del vaccino dovrebbe finalmente aprire spiragli di ripresa e ritorno alla normalità. Insomma, cieli azzurri finalmente. Dopo mesi e mesi di pioggia e nuvole nere. Quantomeno, all’orizzonte. 



Attenzione all’eccesso di ottimismo, però. Perché temo che la gente non sia conscia di cosa stia in realtà accadendo. E non mi riferisco al brusco risveglio che questo Paese patirà a marzo, quando la fine del blocco dei licenziamenti rischia di innescare un duplice tsunami di sistema, occupazionale e bancario a livello di aumento esponenziale delle sofferenze (oltretutto, sotto il nuovo regime di scoperto). La questione è più ampia. La questione è talmente strutturale da spiegare persino la mossa apparentemente senza senso di Matteo Renzi, l’ennesimo pre-avviso di sfratto al governo Conte-bis e al suo titolare. Per cercare di spiegarmi, parto da lontano. Da Oltreoceano, per l’esattezza. Dove sta accadendo questo: i tre Etf tech facenti capo al gruppo Ark nel solo mese di dicembre hanno visto inflows quotidiani di capitale per 400 milioni di dollari. Le creature sotto il controllo di Cathie Wood, di fatto, nell’ultimo mese dell’anno hanno attratto più investimenti di un gigante come Blackrock. Forte dei suoi assets-under-management (Aum) pari a oltre 36 miliardi di dollari, la famiglia dei fondi di Ark oggi gioca nel medesimo campo con fuoriclasse come Vanguard e Invesco, quando soltanto nel dicembre del 2015 gli stessi Aum erano pari a 8,2 milioni di dollari. Cinque anni dopo, siamo a 18,4 miliardi. Il tutto, tracciando sostanzialmente il Nasdaq e il comparto tech. E sedendo su una detenzione di titoli Tesla pari al 10% del totale. Roba per stomaci forti, insomma. 



Soltanto nel corso di quest’anno, l’esposizione di Ark alle cosiddette large caps – i titoli a grande capitalizzazione – è salita dal 10% al 77% del portfolio: quasi di colpo, si è passati dal campetto di periferia alla finale di Champions League. Il motivo? La Fed. Un trend che può dare alla testa. E che ricorda tremendamente, quasi in una correlazione perfetta, la cavalcata trionfale dei retail traders da marzo in poi, quando proprio il ritorno in campo diretto della Federal Reserve per tamponare il fall-out pandemico ha messo le ali ai Gordon Gekko in ciabatte e mutande. Un’ascesa al cielo irresistibile. La gente compra. Continua a comprare, sempre di più. Il tutto, ignorando bellamente una regola cardine del mercato: si acquista a poco e si vende a molto. Ma qui pare che si giochi in base ad altre regole: l’intenzione è quella di sfruttare il momento e capitalizzare da subito la febbre da tech. Poi, si vedrà. Un po’ la logica del last hurrah, di cui abbiamo parlato tante volte. 

Il problema è che quel poi, pare arrivato in anticipo, come mostrano questi grafici: il flusso di capitali record di dicembre, già da martedì pare andato in reverse. Pesantemente in reverse, colpendo di netto anche la performance del fondo-madre. E qui occorre stare attenti, valutare con attenzione: solo una pausa per riprendere fiato dopo una cavalcata senza precedenti oppure davvero il cosiddetto blowoff top, il punto massimo raggiungibile? 

Questione tutt’altro che di lana caprina, non foss’altro per il principio della palla di neve che rotola a valle: se si ferma dopo pochi metri, allora non c’è problema. Se invece prende velocità, il discrimine fra vita e morte sta nei riflessi su cui si può contare per abbandonare il fondo valle. Lo stesso vale per certe scommesse azzardate: chi prima arriva all’uscita di sicurezza, è salvo. Magari un po’ acciaccato ma salvo. Gli altri, conteranno le fratture. Molti, invece, resteranno del tutto schiacciati dalla calca. C’è una strana aria, c’è profumo stantio di una stagione di redemptions bloccate dai fondi, causa mancanza di liquidità. C’è sentore di schema Ponzi generalizzato, c’è nell’aria la puzza svanita di birra rovesciata sul tappeto, quando ancora la festa sembrava infinita. E bellissima. 

Lo stesso vale per l’Italia. Perché ciò che non stiamo capendo, è che la festa sta finendo. Certo, formalmente nella nostra cassetta degli attrezzi possiamo vantare la presenza di utensili di grande efficacia come i fondi Sure, il Next Generation Eu e la schermatura invincibile della Bce. Ma per quanto la percezione benigna di mercato consentirà ancora che quelle armi riescano a sfoderare il loro potenziale di deterrenza ex ante, ovvero prima di essere realmente messe in campo? Certo, i fondi Sure sono già stati in parte erogati dall’Ue e ricevuti dal nostro Tesoro. Certo, la Bce sta già proteggendo il nostro spread e continua a farlo, persino in questi giorni di formale bonaccia di mercato. Ma c’è un problema: stiamo facendo i conti senza l’oste. Anzi, stiamo entrando pericolosamente nel labirinto auto-alimentante che io chiamo fattore olimpico. Ovvero, la sindrome di grandeur da prezzatura anticipata di ciò che arriverà che spinse Atene, invece che a pensare alla messa in sicurezza dei propri conti già traballanti, ad andare all-in sull’azzardo della spesa pubblica e organizzare i Giochi olimpici del 2004. Il vero prodromo del default, la vera ragione scatenante. Per due ragioni. 

Primo, portarono con sé solo esborsi e non introiti, come sperato. Secondo, per tamponare quel disastro, il Governo ellenico pensò bene di truccare i conti, cominciando ad abusare di swap e ricorrendo ai servigi delle banche d’affari, ben felici di fare il bagno nelle commissioni proponendo la scorciatoia – allora ancora molto oscura – dei contratti derivati. E l’Italia cosa sta facendo, in queste ore? Come al solito, siamo arrivati con la Legge di Bilancio in affannosa approvazione parlamentare sul filo di lana dell’esercizio provvisorio. Nessuna novità rispetto al recente passato. Qui, però, stiamo giocando un po’ troppo con le coperture, non a caso il ministro Gualtieri è stato costretto a comunicare all’Aula la necessità di un nuovo intervento correttivo a gennaio. Il nodo? Il finanziamento del super-bonus. E qui entra in campo il messaggio nemmeno troppo in codice inviato dal Commissario Ue, Paolo Gentiloni, attraverso la sua intervista a Repubblica del 29 dicembre: attenzione, perché state preparando una manovra tutta sussidi e ristori, l’Europa quasi certamente la boccerà. E in effetti, basta guardare alla voce investimenti per capire come questa Legge di bilancio sia stata interpretata dalla maggioranza come un assalto alla diligenza delle clientele. Così non solo non si riparte, così ci si schianta. Oltretutto, con un deficit di copertura che è doppiamente grave. Primo, a livello reputazionale proprio verso l’Europa, poiché mostra plasticamente come al Mef non sappiano fare i conti. O, peggio, come al Mef scoprano per ultimi le “aggiunte” che il clima da perenne campagna elettorale ha reso necessarie in corso d’opera per non scontentare nessuno. Di fatto, proprio le accuse di malagestione che hanno caratterizzato la campagna dei cosiddetti Paesi frugali in sede di discussione europea. Secondo, perché il nulla in cui si sta sostanziando la Manovra in termini di ripresa dell’economia (potendo contare su una situazione del debito pubblico anestetizzata dalla Bce) è oltretutto finanziato con un atteggiamento da cicale che utilizza senza raziocinio i fondi ex ante, prima che siano erogati. Scordandosi o ignorando che, come Paolo Gentiloni ha infatti debitamente sottolineato, in caso di bocciatura della Legge di bilancio da parte della Commissione Ue, persino l’esborso dei fondi Sure ancora da ricevere potrebbe essere a rischio. Figuriamoci i mitologici 209 miliardi del Next Generation Eu, stante anche le quattro slides striminzite di Recovery Plan che il Governo ha saputo inviare a Bruxelles. 

Ecco perché, di fronte a questo scenario da azzardo ateniese sulle Olimpiadi, dico che persino l’ennesima forzatura di Matteo Renzi pare avere un senso: quello dello Stato, inteso in termini machiavellici del fine (evitare un commissariamento duro, altro che la Troika che qualcuno nomina a vanvera) che giustifica i mezzi (far fuori politicamente un Governo di irresponsabili, persino con manovre di Palazzo al limite del lecito). Il silenzio preoccupato del Quirinale, in tal senso, fa rumore. Un baccano del diavolo. Attenzione, perché mentre sembra che tutto stia volgendo al bello, dopo un anno da incubo, molti nodi cominciano a venire al pettine. E con il vaccino che, almeno in Germania, già corre a livello di lotta contro il tempo per garantire l’immunità di gregge e il ritorno alla normalità, restare indietro come l’Italia pare stia già facendo anche sul fronte sanitario equivale a consegnare le nostre chiavi di casa alla Commissione Ue, stante manifesta incapacità di gestione. Poi, quando anche la Bce dovrà prendere atto che la pandemia ha perso forza e le misure messe in campo vanno gradualmente ritirate, inizieranno i guai. Quelli veri. Meglio prevenirli, quindi. Con una mai così benedetta e auspicabile crisi di governo, oggi gestibile grazie proprio allo schermo Bce. Già domani, chissà. 

Perché come dimostra l’inversione dei flussi di capitali nei fondi Ark, tutto può cambiare più rapidamente di quanto si pensi. E un Governo serio non rinuncia alla festa collettiva, ma balla sempre vicino all’uscita di sicurezza. Noi, invece, siamo sul terrazzo a guardare le stelle.