Dieci ore di colloquio pressoché ininterrotte. Al termine delle quali Janet Yellen ha sentenziato come le relazioni fra Usa e Cina ora poggino su basi molto più solide. Tradotto, Washington ha ottenuto ciò che voleva. Ha spinto quei fessi di europei ad assumere una posizione più rigida verso Pechino (Italia in testa con la sua volontà di stralciare il memorandum sulla Via della Seta) e ora cementa il nuovo ordine bipolare, avendo pragmaticamente preso atto del ruolo da player assoluto del Dragone. Era tutto già scritto, ora è anche firmato.



E in quale contesto avviene questa svolta? Lo mostra il grafico: gli indici PMI manifatturieri dell’eurozona sono in condizione a dir poco allarmante. A oggi, Germania, Italia, Olanda e Austria vedono quell’indicatore al di sotto dei minimi del 2022. Insomma, nessuna inflazione da domanda. Recessione garantita.



E questo secondo grafico ci dice di più: con le pressioni dei prezzi alla produzione in caduta libera, ogni nuovo rialzo dei tassi da parte della Bce si tradurrà nell’anteprima della deflazione. Forse non era esattamente il momento migliore per alienarsi la Cina come partner economico-commerciale.

C’è di peggio, poi, quantomeno se si guarda a questa dinamica dall’Italia. Al netto di un tandem Berlino-Vienna storicamente sintonizzato su frequenze rigoriste, nelle ultime settimane aveva fatto ben sperare – in vista della discussione sul Patto di stabilità – l’avvicinamento fra Giorgia Meloni e Mark Rutte, Premier olandese e storicamente falco sui conti. Il viaggio in Tunisia alla ricerca di un accordo per bloccare le partenze di immigrati aveva fatto avanzare l’ipotesi di una partnership inedita fra L’Aja e Roma. Insomma, accomunati dal tema del contrasto agli sbarchi, i due leader avrebbero potuto fare fronte comune anche su altre battaglie. A Bruxelles. E nemmeno troppo segretamente, palazzo Chigi sperava in una moral suasion olandese proprio verso il nucleo più duro dei frugali: Germania, Austria e Finlandia. Ora, però, proprio sul tema dell’immigrazione Mark Rutte si è dimesso, spalancando le porte al voto anticipato in autunno.



Domanda: se il tema è apparso talmente divisivo da spaccare in due lo stesso centrodestra di governo, facendo naufragare la coalizione al primo voto di fiducia, siamo certi che lo utilizzerà in campagna elettorale? Oppure si tornerà al vecchio refrain dei Paesi ex-Pigs che monetizzano il debito e finanziano direttamente i deficit, violando i Trattati Ue e facendo imbestialire i contribuenti olandesi, all’epoca del voto anticipato destinati a essere alle prese con una recessione feroce come quella anticipata dal grafico? Non a caso, Mark Rutte ha deciso di non ricandidarsi. Si chiama fuori. O, forse, sale sulla scialuppa del Titanic, prima che finiscano.

Perché lo stesso ragionamento vale per la sinistra olandese, la quale ha lanciato una sorta di coalizione-ombrello tipo Ulivo ma che certamente non è così ipocrita da negare pulsioni rigoriste – su entrambe i temi – anche in seno al proprio elettorato. Saranno coincidenze ma comincia a piovere spesso sul bagnato a Roma. E snobbare l’ombrello, può essere rischioso.

Il motivo? Lo mostra questo altro grafico, dal quale si evince come la produzione di due comparti ad alto consumo di gas come il chimico e il farmaceutico tedeschi nel mese di maggio abbiano patito un calo del 5,5%. E ancora oggi, segnano un -16% dalla media pre-Covid.

Sarebbe questa la fine della crisi energetica in Europa? Nessuno infatti sembra preoccuparsi del long-Covid economico da shock energetico. Questi numeri parlano chiaro. E stando al dato composito della produzione industriale tedesca e all’ultimo sondaggio IFO sulla fiducia delle imprese, il rischio è quello di un aggravamento di questo gap mai colmato.

Ora date un’occhiata a questo ultimo grafico: ci mostra come tutte i dati relativi ai non-farm payrolls Usa di quest’anno siano stati sistematicamente rivisti al ribasso. Tutti.

Ma cosa finisce sui giornali, il dato grezzo o quello affinato e finale? Il primo garantisce la narrativa, il secondo fa meramente volume statistico. Esattamente come lo shock energetico europeo. Per tutti, la crisi legata alle sanzioni alla Russia è passata. Nessuno si chiede più cosa sia accaduto a Nord Stream 2, nessuno si preoccupa delle mosse di Gazprom in Algeria, uno dei principali fornitori alternativi di gas. In compenso, il discrimine è dato dalle mosse dei Governi. I quali possono campare di storytelling oppure sfruttarlo per operare sottotraccia, mentre l’opinione pubblica si coccola con il Valium delle versioni ufficiali. La Germania l’ha fatto, siglando accordi pluriennali con Qatar prima e Usa poi. La Francia, se ricordate, avete detto chiaramente che Edf avrebbe tagliato le esportazioni energetiche verso l’Italia. Da allora, più nessuno notizia al riguardo. Né smentita, né conferma. Nel frattempo, opera sulle centrali nucleari. Cercando di ripristinarne l’operatività. A uso interno. E per un export a caro prezzo. L’Italia sta invece cullando le proprie speranze di crescita su edilizia e turismo. Ovvero, esattamente come per gli esempi tedesco e statunitense, sta vendendo all’opinione pubblica la certezza che superbonus e comparto ricettivo possano sostenere un +1,3% di Pil. Sarà così? O forse quei cantieri avranno costi accessori, in primis creditizi, pesantemente in grado di annullare il boost sull’economia?

La questione non è di poco conto. Perché il Mef già mette le mani avanti, parlando di piano B in caso di mancata erogazione della 3a e 4a rata del Pnrr. Ovvero, più aste di debito. Ma se a questa deriva giapponese, si unisse un Pil reale in area +0,8%, cosa faremmo? Abbiamo fondi a capacità di spesa sufficiente per sostenere l’economia? La Germania lo scorso anno ha messo sul piatto circa 250 miliardi di soldi pubblici, fra nazionalizzazioni di utilities e sostegni diretti a imprese e famiglie. Ma quel grafico di chimica e farmaceutica, settori che pesano decisamente più di un’edilizia dopata e del turismo a picchi stagionali, ci dice che i rischi sono alti. E che il vero shock per l’economia europea sarà questo inverno. E non quello vissuto nel 2022, attutito da fondi a pioggia oggi non replicabili.

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