La Banca centrale argentina ha forse appena salvato il mondo? Tranquilli, per quanto il clima da lockdown ormai permanente non giovi all’equilibrio mentale, per ora non sono ancora impazzito. Non del tutto, almeno. La domanda mi è sorta spontanea venerdì, quando Bloomberg ha rilanciato una notizia apparentemente residuale, quantomeno in un mondo vaccino-centrico come pare diventato quello dei mercati finanziari. E la notizia in questione arrivava proprio dall’altra parte del mondo, dalla patria di papa Francesco. Cos’è successo? 



Cominciamo dal principio, per l’esattezza da questo: ovvero, la rotta da kamikaze assunta dal peso argentino – viva la sovranità monetaria! – negli ultimi mesi, capace di spedire il cambio con il dollaro a 86, un minimo storico. E questo nonostante il generale clima di euforia da Qe permanente, tale da far toccare – in contemporanea – quota 1381 punti all’indice Msci dei mercati emergenti. 



Qual è il problema? Semplice, con il peso in modalità banconota del Monopoli, il carico debitorio denominato in dollari delle aziende argentine diviene, giorno dopo giorno, sempre più insostenibile. Ed eccoci all’oggi. Questo altro grafico mostra la sobria reazione dei bond della YPF alla notizia del rifiuto da parte della Banca centrale di Buenos Aires di vendita dell’ammontare di dollari necessario al pagamento degli oneri obbligazionari su quella carta in scadenza a marzo. Un bel tonfo. 

E non stiamo parlando di un’azienda qualunque, un’oscura entità finanziaria di cui è meglio non fidarsi: con i suoi 99 anni di storia nel comparto petrolifero, la YPF è una sorta di compagnia flagship del Paese, un vanto nel mondo, un’ambasciatrice corporate dell’Argentina resiliente ai suoi innumerevoli default, un biglietto da visita di credibilità. Eppure, picche. Come mai? La risposta, decisamente improntata alla poca diplomazia, l’ha fornita a Bloomberg l’analista della TPCG di Buenos Aires, Santiago Barros Moss: Il messaggio inviato indirettamente dalla Banca centrale è abbastanza chiaro. Semplicemente, in Argentina non ci sono dollari sufficienti per tutte le necessità corporate. Quantomeno, al momento. E per quanto nel favoloso mondo del Qe strutturale tutto paia risolvibile attivando le presse e la stampante, rimane un piccolo particolare: la Banca centrale di un Paese che non siano gli Stati Uniti non può stampare dollari. Chissà, magari in un futuro si arriverà alla logica della succursale, come auspicava Totò ne La banda degli onesti. Per ora, però, occorre arrangiarsi. E dipendere da Washington. E la YPF lo ha fatto. Inviando ai suoi obbligazionisti una bella lettera sotto forma di comunicato stampa, nel quale paventava l’ineluttabilità pressoché certa di un pesante haircut come unica via d’uscita alla perdita totale del capitale investito. 



Insomma, le alternative non esistono: o ristrutturazione forzata del debito o sospensione flat-out dei pagamenti dovuti. Tertium non datur, come confermato dal prezzo raggiunto a tempo di record dal bond principale solo venerdì mattina: 56 centesimi sul dollaro. La nota è stata diffusa il 19 ottobre: quando dico che le situazioni possono vivere escalation spaventose, una volta sfuggite di mano, non esagero. Effetto palla di neve. E Bloomberg nella sua analisi della situazione faceva notare un’altra variabile, tutt’altro che secondaria: in America Latina l’inverno è alle porte, ormai, quindi le necessità energetiche crescono in un contesto in cui YPF rischia di non essere in grado di soddisfare tutta la domanda interna. Ma non basta: se un’azienda nota, forse la più nota e antica del Paese, non riesce a convincere la Banca centrale a venderle tutti i dollari di cui necessita per saldare gli oneri sul debito a breve termine, cosa accadrà a tutte le altre? E in tutti i mercati emergenti, oltretutto, i quali continuano a indebitarsi in dollari. 

Ed ecco la ragione che mi fa dire come la decisione dell’Istituto centrale di Buenos Aires potrebbe aver salvato il mondo: ha offerto a tutti un drammatico spoiler di cosa accadrebbe se, come discusso a livello teorica nell’ultimo Fomc, la Fed davvero decidesse di ragionare su un piano anticipato di ritiro del supporto monetario. Insomma, un altro Taper tantrum come quello innescato proprio sui mercati emergenti da Ben Bernanke nel 2013. Ma al cubo, stante i livelli di leverage raggiunti e il quadro macro da pandemia che non offre garanzie e costringe il mondo a votarsi a Santa Pfizer. Perché se la Fed smettesse di stampare quella preziosissima carta da parati verde o anche solo rallentasse in modo da rendere sistemiche le crisi di approvvigionamento in valuta estera sostanziate dalla mossa – più o meno strategica e concordata con Washington – di Buenos Aires, allora l’effetto cascata sarebbe globale. Prima i mercati emergenti, poi i cosiddetti sviluppati, stante la percentuale di zombie firms che camminano come walking deads in giro per Europa e Usa, stracariche di obbligazioni emesse con il ciclostile grazie al backstop della Banche centrali sui premi di rischio. 

Perché avanzo il sospetto di una mossa tanto volutamente plateale da far parte quasi certamente di una recita a soggetto, orchestrata proprio a Washington? L’Argentina, de facto, è sotto procedura pre-default e a gestire l’intero pacchetto, come in passato, è il Fmi. Il quale, libri contabili alla mano, formalmente dovrebbe conoscere ogni minima criticità del sistema argentino, visto che sempre formalmente è chiamato a “salvarlo” per l’ennesima volta. In tal senso, difficilmente si sarebbe arrivati a un potenziale detonatore simile, potendo facilmente evitarlo con una telefonata fra Fmi e Fed. Anzi, aprendo la finestra e comunicando a voce fra i due palazzi. Qualcuno ha ritenuto che questo atto eclatante, questo incubo nell’incubo fosse lo spoiler perfetto, il trailer acchiappa-spettatori per mandare rapidamente in archivio settimane di chiacchiere su un taper anticipato del Qe anti-pandemico? Insomma, uno sgombrare il campo da possibili errori di comunicazione o misunderstanding del mercato (Christine Lagarde docet), oltretutto addossando la colpa a terzi, al capro espiatorio argentino, perfetto nel suo statuario physique du rôle fallimentare, stante i precedenti. 

In questo senso, a mio avviso, la Banca centrale argentina ha appena salvato il mondo: ha adempiuto al suo compito di monito vivente, quasi certamente in base a una logica da do ut des che scopriremo con l’avanzare del processo di ristrutturazione controllata in atto. Ancora una volta, calcione al barattolo, toppa sull’ennesimo buco di un maglione tanto bello a vedersi da lontano, quanto liso sui gomiti, se osservato da vicino. Se esiste un ambito dello scibile economico in cui la regola del non è tutto oro ciò che luccica appare pressoché imperativa, questo è quello della monetizzazione dei debiti come pratica risolutiva al malgoverno. Lo capiremo sempre troppo tardi. Ma lo capiremo. Il problema sarà il costo.