Il board della Bce più inutile e scontato dell’ultimo anno ha mantenuto le promesse. Tassi fermi al 3,75% a causa di pressioni inflazionistiche interne ancora troppo alte per poter dar vita a un secondo taglio. E questo grafico mostra plasticamente il trend.
Viene da chiedersi, quindi, in base a quale ratio si sia optato per quel solitario intervento simbolico del 6 giugno, stante condizioni che certamente non avrebbero potuto variare a una velocità particolarmente elevata, quantomeno in questa componente così delicata. Nulla più che un atto simbolico. Esattamente come quello compiuto dalla Bank of Japan a marzo. In quel caso, primo rialzo dopo un decennio. Qui, primo taglio dopo una serie di aumenti a ritmo record.
In compenso, Francoforte non ha pagato il medesimo dazio di Tokyo a quello spot della falsa indipendenza monetaria. Nell’eurozona, piaccia o meno, nulla è cambiato. Per una ragione molto semplice: 25 punti base non muovono nemmeno una paglia. A meno che, appunto, non si sia il Giappone. E non si debba fare i conti con una realtà di dipendenza strutturale da un regime di manipolazione totale.
Tokyo non può vivere con tassi positivi. Sintomo che non può vivere senza Qe e senza controllo sulla curva dei rendimenti. L’eurozona, invece, ha come unico banco di prova il reinvestimento titoli acquistati nel corso dei vari programmi di sostegno. Quello pandemico in testa. E stante una dichiarata volontà di rimettere quella carta in circolazione a fine anno e con gradualità, nessun movimento al ribasso dei tassi che non rappresenti un vero e proprio shock può alterare altre dinamiche correlate. Per cui, preso atto di quanto avvenuto il 6 giugno come mero prezzo da pagare a una politica che di lì a 72 ore avrebbe visto gli europei recarsi alle urne per il rinnovo dell’Europarlamento, ecco che anche l’eventuale nuovo taglio che tutti vaticinano per settembre non cambierà nulla. Finché la Bce scherma lo spread sui titoli di Stato, tutto artificialmente bene. Dopo saranno guai.
Inutile ripetere la medesima cantilena per l’ennesima volta. Certo, qualche tensione sta emergendo. Ma sottotraccia. E invisibile. Per due motivi. Primo, la Francia è ancora in prima fila rispetto ai rischi di tensione finanziaria. Quantomeno fino a quando non verrà risolto l’enigma del nuovo Governo. Secondo, la decisione della Bce è stata comunicata in pressoché assoluta contemporanea con il sì dell’Europarlamento al secondo mandato di Ursula Von der Leyen a capo della Commissione. Ecco, l’unico possibile cambio di scenario in cui andrà a posizionarsi la riunione Bce di settembre sarà quello di due incognite macro ormai disvelate. Ma mi scuserete, parlare di nulla mi sembra offendere la vostra intelligenza. E dedicare più di queste righe a quanto comunicato dalla Bce ieri addirittura un oltraggio. In compenso, date un’occhiata a questo: la risultanza di uno studio della First-Cisl rispetto ai costi e alle dinamiche del credito al consumo nel nostro Paese e nell’eurozona.
Come potete vedere, in Italia comprare a rate conviene meno che in Francia, Germania e anche rispetto alla media dell’eurozona. Mica male in periodi di vacche in fase di rapido dimagrimento. E non di poco. Inoltre, ecco che a rendere ancora più serio il quadro è l’aumento costante della pratica di cessione del quinto dello stipendio, passata dai poco più di 10 miliardi di controvalore del 2011 agli attuali 18 miliardi. E sono i giovani a chiedere alle banche questa forma di prestito, il cui impatto a livello di consumi e tenuta sociale è particolarmente allarmante.
Ora, come è possibile che, al netto di un meccanismo di trasmissione del credito che la medesima Bce dovrebbe impegnarsi a mantenere costante e ben oliato, Paesi non poi così dissimili come Francia, Germania e Italia mostrino discrepanze così nette sui tassi applicati alle nuove operazioni di credito al consumo attraverso il Taeg? Forse le nostre banche, a differenza di quelle degli altri Paesi, scontano ancora l’accoppiata di doom loop sulle detenzioni di debito pubblico (nonostante le abbondanti fregature indicizzate rifilate al Signor Rossi) e livello non ancora sufficientemente gestibile (anzi, tornato crescente) di sofferenze e incagli, i mitici Npl?
Se sì, perché tanti dividendi elargiti? Perché rally a Piazza Affari? Se sì e al netto della farsa della tassa sugli extra-profitti tramutata in aumento di capitale interno, perché nessuno al Mef, a Bankitalia e alla Consob (essendo soggetti quotati nella maggior parte dei casi) sente la necessità di alzare il telefono e chiamare a rapporto l’Abi, stante lo scandaloso aumento salariale ottenuto dalla categoria dei bancari solo la scorsa primavera, roba da indicizzazione all’inflazione turca? Parliamo di oltre 400 euro di aumento in busta e taglio delle ore lavorate. D’altronde, quale filiale opera ancora a livello di sportello alla riapertura pomeridiana? Solo back-office. Invece di maledire quella stessa Banca centrale che ci mantiene lo spread sotto controllo, perché non ci chiediamo come mai solo le nostre banche rendano la vita un inferno a famiglie e imprese, a pari condizioni di liquidità e finanziamento garantite dalla Bce e certificate dall’Eva (vedi aste Tltro)?
Con quello che ci attende in autunno a livello di rientro forzato dal deficit eccessivo e dopo l’ammissione del ministro Giorgetti di totale insostenibilità del nostro sistema previdenziale, qualcuno potrebbe finirla di invocare a pappagallo tagli dei tassi totalmente inutili – a meno di non scendere di botto al 2,5% – e trovare la decenza di chiedere conto alle banche di queste distorsioni? Perché c’è poco da nascondersi dietro al paravento delle finanziarie che erogano quei prestiti e quindi impongono i tassi: sono le banche a gestire la giostra, direttamente o indirettamente. Certo, quando le banche siedono nei Cda delle società editrici dei grandi media, tutto si complica.
Signori, la riunione della Bce di ieri è stata totalmente inutile. Non cambia nulla. E non per i tassi fermi. Ma per lo spread che ci divide a livello di meccanismi di trasmissione del credito dai nostri alleati/competitor dell’eurozona. E qui la colpa non è di Francoforte. Ma tutta interna. Unite quell’inflazione domestica ancora così alta da imporre precauzionale cautela a Christine Lagarde al surplus che come consumatori/creditori italiani scontiamo al potere d’acquisto di salari stagnanti e già erosi da tassi fuori linee rispetto all’eurozona. E poi chiedetevi se non sia arrivato il momento di dire basta. Perché è vero che le banche non si fanno fallire. Ma dovrebbe valere anche per imprese e famiglie. O l’autunno rischierà di portare il tema all’attenzione della politica con nuances da ordine pubblico, smettendo di bussare educatamente alla porta.
Perdonate la franchezza. Ma temo che non sia chiaro cosa ci attenda dietro l’angolo retto dei prestiti per andare in vacanza, ultimo bastione di narrativa.
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