Fra Acca Larentia e Ferragnigate, i media italiani stanno egregiamente assolvendo il loro compito. Mis-informare. E in effetti, trovare una cronaca di quanto stia accadendo su strade e autostrade tedesche è missione impossibile. A meno che non si cerchino elucubrazioni su come camionisti e agricoltori teutonici siano strumenti di destabilizzazione utilizzati dalla Russia per colpire il Governo Scholz e il suo interventismo a favore dell’Ucraina. Sicuramente, il 90% di chi protesta è contro le sanzioni alla Russia. Non fosse altro per gli oltre 200 miliardi di denaro pubblico messi sul piatto per tamponare il fallout energetico, fra nazionalizzazione di Uniper e sostegni alle imprese. Ora che il regime di sgravi sul carburante agricolo è terminato, le due categorie più colpite protestano. Difficile pensare che lo facciano per amore del Cremlino. Forse lo fanno per non morire di fame.
Ma paradossalmente, persino questa protesta appare poca cosa. Quantomeno paragonata a quanto ci dicono questi due grafici, a partire da quello che fa riferimento al dato della produzione industriale tedesca di novembre. Fresco fresco di pubblicazione: un altro -0,7% su base mensile, la certificazione di un processo di de-industrializzazione che, come mostra l’altra immagine principale, riguarda tutti i comparti dell’economia. Tutti.
E attenzione. Perché quel -0,7% assume un carattere ancora più preoccupante alla luce delle previsioni degli analisti, le quali convergevano verso un decisamente lunare +0,3%. E prendendo la lettura su base annua, ecco che abbiamo un -4,8% contro attese del -4,0%. Forse per questo la gente protesta, che ne dite? Forse per questo la gente si rifugia nel voto di rottura. Con le europee a giugno. E tre test locali nella ex Ddr in autunno.
Ma al netto della Schadenfreude per le sciagure karmiche che stanno colpendo gli ex primi della classe, occorrerebbe ricordare a Governo, opposizione e parti sociali che quanto sta accadendo in Germania a livello di trend recessivi, nell’arco di tre mesi comincerà a generare spillover sulla catena di subfornitura e componentistica italiana per l’industria teutonica. Il tutto nel pieno del momento di incertezza monetaria maggiore da parte della Bce, la quale millanta disinteresse per ogni ipotesi di taglio dei tassi ravvicinato, ma sa benissimo che proseguire la logica di data-dependency sull’inflazione la porterebbe in posizione di mismatch e fuorigioco rispetto alla Fed. E ciò che vale per il mercato, vale anche per le stamperie: don’t fight the Fed, mai mettersi contro Powell e soci.
Il Governo Scholz non cede. Dopo aver gonfiato debito e deficit in ossequio alla campagna di Russia, ora pensa di pulirsi la coscienza dagli aloni di Weimar tagliando la goccia nell’oceano degli sgravi sul diesel agricolo. Chiaramente, soppesando col bilancio l’orientamento medio di quell’elettorato. Conservatore. E soprattutto drasticamente contrario a ogni implementazione dell’agenda di transizione green che, di fatto, è l’unico collante che ancora tiene insieme l’Esecutivo. Staccata la spina da parte dei Verdi, salta il banco. E prima delle europee equivarrebbe a un suicidio. Ma in Italia si parla di Acca Larentia, perché tutto va bene qui, no?
Ma se vogliamo proseguire nello sport dell’occuparci di non notizie, quantomeno stando alle scalette e ai palinsesti scelti dall’informazione autorevole, giova ricordare come il 13 gennaio a Taiwan si vota. Esatto, dopodomani. Si va alle urne per presidenza e rinnovo del Parlamento. Apparentemente, nessuno mostra particolare interesse. E parliamo del vero epicentro di un potenziale reset. Globale. Materia infiammabile in grado di tramutare Gaza in un mero conflitto locale. E gli attacchi Houthi nel Mar Rosso in materia piratesca degna della saga con Johnny Depp. E al netto delle speculazioni, Xi Jinping nel discorso di inizio anno alla nazione è stato chiaro: la Cina verrà riunificata. E il grafico parla altrettanto chiaro al riguardo, forse addirittura di più.
E lo fa in base a una simulazione di impatto sul Pil globale determinata dai trend tracciati da Fmi e Bloomberg Economics. Per carità, tutta teoria. Tesi empiriche. Ma il raffronto con le principali crisi sistemiche recenti è addirittura impietoso. Praticamente una capacità recessiva doppia di quella della pandemia da Covid e della crisi innescata dal fallimento di Lehman Brothers. E tanto per rendere noto come non intenda accettare la pur minima intromissione nel voto, Pechino ha sanzionato 5 aziende del comparto difesa statunitense: Bae Systems Land and Armament, Alliant Techsystems Operation, AeroVironment, ViaSat e Data Link Solutions. Tutte coinvolte a vario titolo nella fornitura di armi, tecnologia e strumentazione a Taiwan. E al netto dell’ultimo pacchetto di aiuti militari da 300 milioni varato dal Congresso solo un mese fa, il fatto che nessuna di queste imprese operi direttamente in Cina rende ancora più esplicito il carattere simbolico e di avvertimento della mossa del ministero degli Esteri cinese. Il tutto a pochi giorni dall’arresto di un consulente di un’azienda britannica con l’accusa di essere una spia del MI6. Insomma, Taipei equivale all’alta tensione. Chi tocca, muore. O quantomeno rischia seriamente di bruciarsi.
In compenso, una situazione simile appare a dir poco perfetta per un anno elettorale come quello che si è appena aperto. Soprattutto per Joe Biden. Praticamente, un effetto deterrenza degna della dottrina del Dottor Stranamore. E senza data di scadenza. E utilizzabile alla bisogna, sia a livello di disputa commerciale, sia a livello di intorbidimento delle acque grazie alla ciclica campagna in sostegno dei diritti civili e dell’opposizione taiwanese. Già visto come scenario. Di recente. E perfettamente in grado di catalizzare, oltre all’attenzioni, soprattutto le prezzature degli assets. Con una Cina al quarto anno di Borsa in rosso e con l’economia in rallentamento, nonostante iniezioni record di liquidità, ecco che un possibile jo-jo geopolitico da armageddon può garantire qualsiasi tipo di cambio di politica a Governi e consessi internazionali. E, soprattutto, Banche centrali.
Prepariamoci quindi a un anno in cui si sprecheranno gli avvisi delle varie intelligence occidentali per un’invasione cinese ormai imminente. Un po’ come il default di Evergrande. Nel frattempo, lo spauracchio di quell’impatto sul Pil globale farà il resto. Oliando a dovere le stampanti di Fed e soci. Just in case.
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