Oggi non sarò breve, lo premetto. Ma vi prego di leggere con attenzione queste righe, soprattutto di farlo con la mente aperta. Senza preconcetti di schieramento, soltanto valutando i fatti messi in fila e cercando di trarre delle conclusioni logiche. Roba da rasoio di Occam, insomma. O di gioco dei puntini da unire della Settimana enigmistica. Partiamo da un principio chiaro: cosa penso del Mes ritengo sia chiaro a tutti, inutile ricominciare uno sterile dibattito sui pro e i contro. Ognuno si tiene le proprie convinzioni, anche perché – come sempre più spesso accade in questo Paese – la discussione su un argomento di centrale importanza per il futuro nostro e dell’Europa è stata relegata a disputa fra Guelfi e Ghibellini. Peccato. Ma, ormai, questa è l’aria che tira. A destra come a sinistra, senza distinzioni di residuo raziocinio possibili. Mi piace però farvi notare alcune coincidenze. Soprattutto temporali.
Come mai è scoppiata proprio ora la polemica, furente e con toni davvero da Ok Corral, sulla riforma del cosiddetto Fondo salva-Stati? Forse perché, di fatto, il 12 e 13 dicembre prossimi il Consiglio europeo è chiamato alla sua ratifica? Beh, diciamo che la cosa non è proprio inedita, non rappresenta una novità, un vulnus venutosi a creare dalla sera alla mattina rispetto all’agibilità politica del governo nato dalle ceneri (anzi, dalla sabbia) del Papeete. Anzi, il fatto che si sia atteso l’arrivo della questione al suo ultimo miglio, dovrebbe far riflettere sulla strumentalità insita nell’intera discussione. Oltre che sulla serietà di certa classe politica.
Il Mes è migliorabile? Certo, come quasi tutto ciò che è elaborato da mente umana lo è. In quanto fallace, quindi perfettibile. Però, resta il fatto: il prossimo fine settimana la Lega ha annunciato banchetti informativi sulla questione in tutte le piazze d’Italia (rabbrividisco solo al pensiero degli argomenti e dei toni che verranno sciorinati sotto quei gazebo), mentre Fratelli d’Italia il 9 dicembre sarà addirittura in trasferta a Bruxelles per dimostrare la propria contrarietà. Insomma, mobilitazione. Oppure, forse, tentazione di spallata verso l’esecutivo, Mes o non Mes, di fatto divenuto ultimo alibi per tentare l’assalto al Palazzo d’inverno del voto anticipato rispetto alla scadenza di legislatura e finché i sondaggi sorridono, anche in vista del voto spartiacque del 26 gennaio in Emilia-Romagna?
Viene da chiederselo, in tutta coscienza. Perché se davvero ci sono in ballo i risparmi degli italiani da sacrificare sull’altare del salvataggio delle banche tedesche e francesi, se davvero nell’aria c’è l’odore acre della ristrutturazione del nostro debito e addirittura dei prelievi forzosi sui conti correnti stile 1992, allora siamo a uno snodo di quelli epocali: perché per mesi e mesi, tutti hanno taciuto su una materia di tale serietà e su dei rischi di questa entità? Perché solo ora, esaurito per sopraggiunte condizioni meteo avverse l’altro comodo alibi di polemica relativo agli sbarchi di immigrati? Come sapete non ho votato alle ultime elezioni politiche e, ve lo preannuncio candidamente, non lo farò nemmeno alla prossima tornata. Voterò per il sindaco di Milano, quello sì, ma a livello nazionale nessuno mi rappresenta nemmeno lontanamente. Quindi, quantomeno eviterò di essere complice di qualche scempio annunciato. Questo per dirvi che non mi interessa assolutamente attaccare il centrodestra a fini elettorali o di preferenza partitica, semplicemente perché c’è qualcosa di strano nel timing dell’operazione.
Cosa? Ce lo mostra questo grafico, il quale ci dimostra come a salvare dalla recessione tecnica l’economia tedesca nel terzo trimestre di quest’anno ci abbia pensato il balzo dell’export verso gli Usa. Il made in Germany ha fatto faville Oltreoceano, garantendo un sospiro di sollievo al gigante azzoppato. Ma azzoppato da cosa? Dalla guerra dei dazi fra Cina e Usa, di cui Berlino è stata il più clamoroso caso di danno collaterale. O, se preferite un’altra metafora, vittima di fuoco amico.
È una teoria che sposo fin dal primo giorno, quindi non devo spiegarvela: gli Usa non possono davvero fare una guerra tout court contro la Cina, stante il rischio di una fiammata inflattiva su beni di larghissimo consumo che svelerebbe alla classe media – proprio nell’anno del voto presidenziale – il segreto di Pulcinella dell’amministrazione Trump. Ovvero, non solo l’economia reale non è affatto sana quanto i livelli raggiunti da Wall Street farebbero intendere, ma, cosa più seria, le dinamiche salariali sono stagnanti dai tempi di Barack Obama, l’America great again è rimasto uno slogan. Poi, come mostra questo grafico, un’economia come quella Usa che si basa al 70% sui consumi non può permettersi, per ora, il lusso di alzare un muro nei confronti del supermercato a basso prezzo del mondo. Punto.
In compenso, quella guerra asimmetrica e controllata ha garantito un rallentamento bipolare delle logiche commerciali che ha schiacciato l’industria tedesca, basata notoriamente in gran parte sulle esportazioni. E, nel contempo, Donald Trump non ha lesinato bastonate politiche contro Angela Merkel, rea proprio di troppo appeseament commerciale verso la Cina e dell’accordo su Nord Stream 2 con la Russia. Ma di colpo e terminata l’estate, il ministero degli Esteri tedesco decide – di punto in bianco – di cambiare registro e addirittura mandare su tutte le furie il governo di Pechino per la decisione di ospitare al Bundestag uno dei capi della rivolta giovanile di Hong Kong. Qualcosa è cambiato, il messaggio simbolico è chiaro. E, magicamente e letteralmente, le esportazioni tedesche scoprono l’America. E la Germania rialza la testa economicamente e a livello produttivo, evitando – seppure di un pelo – la recessione tecnica.
E cos’è accaduto in Italia, nell’arco degli ultimi dieci giorni? Beppe Grillo, tornato in sella al suo Movimento per serrarne le fila, ha incontrato per due ore l’ambasciatore cinese, non si sa in quale veste. Immediate proteste dell’opposizione, la quale dopo essersi per mesi e mesi bellamente infischiata della questione di Hong Kong, invita anch’essa lo stesso leader delle rivolte nella ex colonia britannica per una videoconferenza in Parlamento, scatenando la reazione ufficiale di protesta del Governo cinese. Cui, suo malgrado, ha dovuto rispondere proprio il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, con toni – almeno formalmente – ugualmente duri, difendendo l’indipendenza e la sovranità delle iniziative delle Camere. Immagino che al Dipartimento di Stato Usa la scena non sia passata inosservata. E che, anzi, abbia suscitato ammirazione. Molta.
In tal senso, quindi, non stupirà ciò che ha scritto la scorsa settimana La Repubblica, senza venire smentita. Ovvero che martedì 12 novembre, Giorgia Meloni è stata invitata dall’Ambasciatore americano a Roma, Lewis Eisenberg, per un incontro super riservato: il colloquio si è svolto a Villa Taverna, sede diplomatica Usa a Roma e il messaggio dell’Amministrazione di Washington sarebbe stato di apprezzamento. Non solo. Durante il faccia a faccia si sarebbe parlato di un viaggio della leader di Fratelli d’Italia negli Stati Uniti all’inizio del 2020, al fine di incontrare direttamente Donald Trump o il vicepresidente, Mike Pence. Insomma, un’incoronazione. Legittima. Anzi, il minimo sindacale di rapporti internazionali per un partito che alle prossime elezioni punta a entrare nella compagine di governo e con un ruolo non più da “brutto anatroccolo”, visto che – sondaggi alla mano – sarebbe ampiamente la seconda forza della coalizione di centrodestra. Ma ancor più legittimo, stante il fatto che si tratta dell’alleato principale in seno alla Nato e della potenza numero uno al mondo.
Strano il timing, però. Molto strano. Insomma, fiutata l’aria elettorale, i sondaggi con il vento in poppa e, soprattutto, la a dir poco tiepida accoglienza riservata da Washington a Matteo Salvini nel suo ultimo viaggio Oltreoceano, causa la “lettera scarlatta” dei rapporti troppo stretti con il Cremlino e il caso Metropol, la numero uno di Fratelli d’Italia ha voluto fornire una prova d’amore all’amico americano, tanto per citare Wim Wenders? E attenzione, perché i sospetti sulle tempistiche di questa crisi legata al Mes valgono anche per il Movimento 5 Stelle, in maniera bipartisan.
Immagino, infatti, che non vi sia sfuggita la coincidenza in base alla quale la carica a testa bassa sul fondo salva-Stati in casa grillina sia partita due giorni dopo il voto sulla piattaforma Rousseau, nel quale la base chiedeva ai vertici – smentendone platealmente l’impostazione e indicazione di massima – di partecipare con propri candidati alle regionali di Emilia-Romagna e Calabria. Insomma, un bel guaio per chi già sognava una rilassante astensione dalla guerra delle preferenze, vista l’emorragia costante di consensi. Serviva un drappo rosso elettorale da sventolare, a questo punto. E in fretta, essendo venuto meno il provvedimento-bandiera del taglio dei parlamentari. Et voilà, il Mes. Del quale, non a caso, in casa 5 Stelle si chiede una revisione dopo attenta lettura, riflessione e analisi: la tempistica per questa operazione di approfondimento? Un rinvio di due mesi rispetto alla scadenza attesa di dicembre. Guarda caso, giusto il lasso di tempo che garantirà un argomento spendibile in vista del voto emiliano-romagnolo del 26 gennaio. Tutte coincidenze fortuite, ovviamente.
Veniamo poi a questo terzo grafico, il quale ci mostra un’altra interessante dinamica legata all’economia europea. Ovvero, nell’ultimo periodo, quello che ha visto la Germania entrare in crisi da guerra commerciale, a livello di crescita del Pil la Francia ha invece ben performato. Guarda caso, a freddo e utilizzando come pretesto e location di prestigio il vertice Nato di Londra, Donald Trump ha del tutto spostato il suo mirino dalla Germania proprio sulla Francia, prima attaccata politicamente per le parole – in realtà, davvero poco diplomatiche – utilizzate da Emmanuel Macron per definire lo stato di salute dell’Alleanza Atlantica e poi destinataria di sanzioni su beni per miliardi, nuovi dazi ammazza-export che vanno a colpire i fiori all’occhiello transalpini, come i formaggi o lo champagne. Ovviamente, con l’aggravante del “gioco del pollo” sempre in atto fra Washington e Pechino, la cui prossima tappa è fissata a breve: il 15 dicembre, infatti, dovrebbero entrare in vigore le nuove tariffe punitive, quelle sullo stock maggiore di beni di largo consumo (dall’abbigliamento alle calzature, dagli elettrodomestici ai pc agli smartphone). Accadrà, inviando uno scossone terrificante ai mercati? O si opterà per l’ennesimo rinvio, lasciando però sospesi anche i dazi verso Parigi, quasi una minaccia permanente?
Per ora, Parmigiano Reggiano in testa, l’Italia è stata esentata dall’ira commerciale funesta del presidente Usa. Chissà come mai? Ora, parliamoci molto chiaro: la questione Mes, al netto delle bufale sul salvataggio delle banche tedesche o della ristrutturazione del debito automatica in caso di richiesta di aiuto (l’Italia ha quasi il 18% delle quote del Fondo e, necessitando l’attivazione di quel processo l’85% dei consensi fra i membri, Roma ha comunque e sempre un potere di veto primario e numerico che evita di principio “trappole greche”), tutta questa pantomima non ha forse delle ragioni sociali differenti da quelle, elettoralmente molto spendibili e patriottiche, della tutela dei diritti e della sovranità dell’Italia? Non è che, in nome di un’Europa matrigna da combattere e di una voglia matta di palazzo Chigi, ci stiamo dimenticando il principio da sliding door, da porta girevole perenne, che ha caratterizzato tutte le alleanza poste in essere da Donald Trump da quando è alla Casa Bianca?
Pensiamo davvero sia furbo, in nome della lotta politica interna, venderci anima e corpo a chi, legittimamente dal suo punto di vista, ha tutto da guadagnare da un indebolimento politico, economico e commerciale del primo mercato del mondo, ovvero l’Ue? Unite a questo quadro l’instabilità perenne innescata dal Brexit, ora guidato da un altro politico grandemente nelle grazie di Donald Trump come Boris Johnson e, forse, il mio scenario non vi sembrerà più così pregiudizievole. O campato in aria.