Spero che scuserete la parzialità del dato dovuta alle esigenze redazionali di impaginazione e chiusura degli articoli. All’ora di pranzo di ieri, terzo giorno di collocamento, il nuovo Btp Valore segnava 500 milioni di controvalore in titoli in più. Il totale parziale saliva quindi a 6,56 miliardi. Certo, c’è tempo fino a domani prima della chiusura. Ma il dato è tutt’altro che confortante. Non fosse altro per le condizioni offerte dal Mef per questa ennesima emissione destinata al pubblico retail, nettamente più allentanti delle (molte) precedenti. Ma al netto dei particolari in cui ci addenteremo poi, a far riflettere – quantomeno il sottoscritto – ci ha pensato il cambio di narrativa e lessico relativo ai conti pubblici italiani che si è palesato in contemporanea. Il ministro Giorgetti, al fine di giustificare la necessità di spalmare i crediti del Superbonus su 10 anni, ha evocato il Vajont come termine di paragone. Mentre la Dataroom di Milena Gabanelli sul sito del Corriere si riferiva ai conti pubblici italiani con il termine sfascio.



Scusate, mi sono perso qualcosa nell’ultima settimana? Perché mi pare che questo sia il medesimo Paese che festeggiava le proiezioni di crescita del Fmi, sottolineando borioso come il nostro Pil per il 2024 farà decisamente meglio di quello tedesco e francese. E tutto sembrava in ordine. Addirittura, si negava la necessità di una Manovra correttiva in autunno, nonostante un rapporto deficit/Pil oltre il 7%. Cosa è accaduto? Il via libera definitivo al Patto di stabilità. Quello votato dei Governi. Dove anche l’Italia ha votato a favore, a differenza dello scrutinio all’Europarlamento dove si sprecarono le astensioni strategiche a livello partitico. Non vi siete accorti? Per forza, il voto si è tenuto in seno al Consiglio dei ministri dell’Agricoltura del 29 aprile scorso. Praticamente mimetizzato, a meno che voi non lavoriate per Coldiretti.



Et voilà, Madama Realtà è entrata silenziosamente a palazzo. E allora ecco che si sdoganano termini come Vajont e sfascio, utilizzati con una leggerezza che sconcerta. Perché le parole hanno un peso. Non si gettano a caso nello stagno del dibattito, tanto per guadagnarsi qualche like. Il Vajont devastò il Friuli-Venezia Giulia. Lo sfascio evoca il Dopoguerra. Riferire tutto questo ai medesimi conti pubblici che operano da sottostante a quel debito che stiamo collocando, fa paura. Perché potrebbe spiegare molte cose. In primis, la scarsa domanda. Perché il Mef sperava in ben altro risultato. Ma soprattutto, via XX settembre sa che ormai manca poco al totale disvelamento dei piedi. La coperta già corta, ormai è ridotta a un asciugamani.



Primo, quest’asta dalle condizioni così formalmente irrinunciabili è stata uno stress test. Più che collocare, serviva capire. E fissare un’altezza all’asticella. Quanto gli italiani sono ancora disposti a investire in debito pubblico? Poco. E non per sfiducia, almeno per ora. Non per il timore di futuri haircut o attivazione delle Cac, magari richiesti come sacrificio una tantum da un’Europa a guida Draghi. Bensì perché i soldi scarseggiano. I salari sono fermi. L’inflazione ha eroso il potere d’acquisto. E la pandemia, al netto di mance e mancette, ha intaccato il risparmio. Resta la casa. E il mattone appare ancora più sicuro del Btp. Il Mef sta di fatto elaborando i suoi modelli di VaR, tanto per capire quanto sia trasferibile il rischio Paese dalle banche ai cittadini/risparmiatori.

Perché? Semplice. E siamo al punto due. La Bce, di fatto, sta dettando l’agenda delle emissioni al Mef Perché la medesima Banca centrale che finora ha tenuto a bilancio tutti i Btp acquistati in seno al programma di acquisto pandemico (Pepp), a fine anno comincerà a scaricare. Fine del reinvestimento. A quel punto, l’Italia deve cercare compratori. Le banche? Troppo piene di debito. E troppo poco propense a caricarsene ancora. Occorre la via giapponese. Il debito italiano in mano agli italiani. Molto patriottico. Un qualcosa che piace certamente al Governo. E che infatti ha visto il ministro Giorgetti parlare di ricchezza privata da mettere a disposizione del Paese. Non siamo all’oro alla Patria. Ma non manca moltissimo.

La Bce ha detto chiaramente a Bankitalia che appare prudenziale cominciare quel trasferimento di rischio. Quantomeno per capire quanto debito è assorbibile dalle famiglie. Prima che parta davvero lo tsunami, nel momento in cui Francoforte comincerà un Qt di bilancio sui titoli acquistati nel post-2020. Ma già oggi, le famiglie italiane detengono direttamente il 13,5% del debito pubblico. E se conteggiamo quello indirettamente detenuto tramite banche e intermediari, occorre sommare un altro 26,5%. Cui occorre unire la quota di risparmio postale. Insomma, per quanto possa sembrare incredibile, già oggi le famiglie italiane detengono circa il 47% del debito pubblico che fa capo a titoli di Stato e risparmio postale circolanti. Ne vorranno ancora? E se sì, avranno sufficiente capitale per acquistarne ancora nei tempi, nei modi e nei volumi necessari al Mef per riuscire a operare un controbilanciamento del disinvestimento titoli del Pepp da parte della Bce, al netto della moral suasion di Mario Draghi lo possa far procedere a ritmi più che blandi?

Ora il Patto di stabilità è norma. E per quanto vi vendano la favoletta dei tempi lunghi che garantiscono giochi di palazzo e compromessi per emendarlo, la Germania non può e non vuole. Dal 2020 in poi, la Bundesbank ha giocoforza accettato che la Bce si riempisse di debito pubblico italiano, spagnolo, portoghese e greco in ossequio all’emergenza pandemica e in spregio alla capital key. Ora l’economia tedesca è in stallo. Da trimestri. Il Governo traballa. Sempre di più. E in autunno, dopo la più che probabile mozione di sfiducia popolare del voto europeo, le urne nei Lander potrebbero detronizzarlo del tutto. A quel punto, l’Spd sarà morta. I Verdi un partito residuale. E la partita sarà fra Cdu-Csu, Alternative fur Deutschland e Liberali. Uno più falco dell’altro. Ci sarà davvero poco da emendare e poco su cui contrattare. Soprattutto se si arriva al tavolo con un deficit al 7,2%, un debito che cala solo frazionalmente e non strutturalmente e conti pubblici che il medesimo ministro che dovrebbe dare battaglia ha descritto come travolti da un Vajont.

Lasciate stare lo spread. Quello ormai non conta più nulla. Nessuno detiene debito in base a un indicatore che, piaccia o meno, dipende più dalle bizze monetarie della Fed che dai fondamentali macro-economici da rischio Paese europeo. Le emissioni continue di questi primi mesi del 2024, nonostante tassi di interesse ai massimi e aspettative di un loro taglio a breve, erano prima necessità di fare cassa, ora stress test di resistenza e capacità di assorbimento. Ma il signor Rossi pare avere detto stop, esattamente come il Big Ben di Portobello. Ora comincia il conto alla rovescia. Perché dall’11 giugno, i nodi verranno al pettine.

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