Almeno negli Usa, la mitica Fase 2 è già arrivata. Ma attenzione. Non si tratta di un rilassamento delle misure restrittive destinato a fare da apripista alla riapertura generale del Paese. No, siamo allo step successivo della Phase One sancita lo scorso dicembre nella disputa commerciale con la Cina. Peccato che Washington abbia scelto di affrontarlo con il passo del gambero: via i guantoni, ci si torna a picchiare senza regole, come in una rissa. Resosi conto di come la Fed stia già oggi – giocoforza – cominciando a prendere tempo, coscia di aver già toccato quota 6,6 triliardi di dollari di stato patrimoniale e di aver messo in campo un armamentario senza precedenti in soli tre mesi di intervento (escludendo quello sulla liquidità Repo cominciato lo scorso settembre), Donald Trump è partito lancia in resta in una crociata di politica estera (con ovvia ricadute sul fronte economico) con tutti i crismi.
Rispondendo alle domande dei giornalisti nel Rose Garden della Casa Bianca, il Presidente ha infatti lanciato uno dei suoi messaggi in codice, quando un reporter gli ha chiesto un giudizio sull’ipotesi tedesca di chiedere 160 miliardi di danni alla Cina per il Covid-19: “Ho in mente un’idea più semplice. E che metterà in campo una cifra ben superiore a quella. D’altronde, ci sono molte cose che posso fare nel mio ruolo”. Cosa, ad esempio? Che si trattasse di una minaccia non vana o campata in aria in favore di telecamera, lo ha confermato indirettamente Pechino, lesta nel rendere noto da fonti ufficiali come non sia nel suo interesse interferire nella politica interna statunitense. Ma ancora più cristallina è giunta la lettura di Bloomberg, alla vigilia del Primo Maggio: la Casa Bianca starebbe valutando l’ipotesi di emettere un ordine esecutivo per bloccare una decisione del 2017 e facente riferimento alla possibilità che il Thrift Savings Plan, il fondo pensioni federale statunitense, possa trasferire 50 miliardi di dollari a un fondo internazionale che operasse come “specchio” dell’MSCI All-Country World Index. In parole povere, stante il peso degli indici del Dragone in quel paniere, Donald Trump sarebbe pronto a vietare investimenti miliardari del fondo pensione Usa nel mercato azionario cinese.
Immediatamente, lo yuan si è letteralmente schiantato al suolo nelle contrattazioni overnight, estendendo una due giorni di calo. Un favore a Pechino, nota per la sua predisposizione manipolatoria al ribasso della valuta? Formalmente sì, ma non certo in un periodo di sofferenza economica, dove il driver dell’export appare giocoforza ridimensionato nei volumi (e quindi anche il potere del dumping sui cambi), mentre i prezzi dei generi di largo consumo interno continuano a salire e il potere d’acquisto va preservato a ogni costo. Soprattutto, se sei un Governo autoritario che necessita di utilizzare anche un po’ la carota, oltre al bastone quotidiano. Insomma, la guerra retorica e tutta politica in vista del voto di novembre pare iniziata con i botti.
Ma non basta. Mentre Bloomberg si apprestava a lanciare il suo siluro in Rete, sempre alla Casa Bianca si stava tenendo la sessione di domande e risposte fra Presidente e stampa. Interpellato da un giornalista sull’esistenza di qualcosa di concreto che potesse garantire un alto grado di fiducia verso le accuse che vedrebbero il laboratorio bio-chimico di Wuhan al centro della nascita della pandemia, Donald Trump ha decisamente riposto il fioretto nel fodero: “Sì, sono in possesso di evidenze che mostrano questo legame. E dico chiaramente che l’Oms dovrebbe vergognarsi, poiché sta agendo come ufficio stampa della Cina”. Incalzato sulla natura delle prove, il Presidente si è trincerato dietro un formale e ufficiale: “Non posso dirlo, non sono autorizzato a farlo”.
Insomma, guerra aperta. Cui va unito, al netto del potenziale bluff, un terzo tassello, anch’esso legato alla Cina, ma con un grado di strategicità forse ancora maggiore. Il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha infatti chiesto a tutti i Paesi alleati di bloccare e interdire il proprio spazio aereo alla compagnia iraniana Mahan Air, attualmente già sotto regime sanzionatorio statunitense. Il motivo? Ultimamente cargo di quel vettore avrebbero portato in Venezuela “beni di supporto sconosciuti” in favore del regime di Maduro. E quale siano i “beni” è presto detto: Caracas campa unicamente con le royalties del petrolio, già al limite visto il crollo delle valutazioni del greggio. Inoltre, anni di sanzioni e mancata manutenzione, stanno mettendo in ginocchio le infrastrutture, tanto che Teheran starebbe inviando materiale e tecnici per ripristinarne l’operatività.
Di fatto, un diretto supporto logistico alla prima (e unica) voce di entrata che garantisce un flusso di cassa al Governo. Soprattutto nella raffineria principale del Paese, quella di Cardon, che con i suoi 310mila barili al giorno è di vitale importanza per la sopravvivenza del Paese, anche relativamente alla produzione di gas. Ovviamente, la ragione ufficiale della richiesta Usa sarebbe un’altra: ovvero, Mahan Air sarebbe ritenuta vicina a Hezbollah, “lo stesso gruppo terroristico che utilizza questo vettore per spostare armi e uomini in tutto il Medio Oriente”. Soprattutto in Siria, dove la presenza dei miliziani sciiti al fianco di Bashar al-Assad e dei militari russi ha creato parecchi mal di pancia a Isis e affiliati vari, tutti a libro paga dello stesso Dipartimento di Stato e della Turchia. Insomma, geopolitica energetica allo stato puro, seppur – come al solito – travestita da più presentabile lotta al terrorismo.
Il problema è che l’Europa sarebbe stata colta in contropiede da questa offensiva diplomatica e di politica estera Usa, facendosi trovare totalmente impreparata. Insomma, ordine sparso. Tanto che la Germania avrebbe già aderito alla richiesta ulteriore di Mike Pompeo, dopo aver inserito per prima e già nel gennaio dello scorso anno la Mahan Air nella sua black-list interna, vietandone atterraggi e decolli negli scali tedeschi. Chiaro segnale: dopo mesi e mesi di politica di distanziamento dall’amministrazione Trump – fra collaborazione energetica con Mosca su Nord Straem, apertura al 5G cinese e resistenza in sede europea proprio all’embargo commerciale verso l’Iran chiesto dagli Usa -, Berlino pare intenzionata ad accettare acriticamente e a tempo di record di spalleggiare il ritorno in auge della crociata anti-ayatollah degli Stati Uniti. Di fatto, colpendo tre bersagli in uno: la Cina, main sponsor commerciale e militare di Teheran e Caracas, governo che dalla solidarietà di Pechino e Mosca è pressoché dipendente in maniera totale. Con i sondaggi che le certificano il vento del gradimento in poppa per la gestione della crisi da pandemia, dopo troppi de profundis recitati anzitempo da germanofobi poco avveduti e informati, Angela Merkel sa che la situazione è tale da imporre scelte e alleanze chiare: atlantismo senza tentennamenti, costi quel che costi.
Insomma, grandi stravolgimenti – ancorché per ora ancora sotterranei – in vista dell’estate e del voto per le presidenziali del prossimo novembre. Un attacco diretto al Venezuela, al fine di rovesciare il governo comunista di Maduro e inviare un chiaro segnale a tutti, in primis l’elettorato interno che in cuor suo continua ad amare le immagini dei boots on the ground in giro per il mondo nei tg? Non c’è da escluderlo, soprattutto quando in sei settimane hai perso 30,93 milioni di posti di lavoro a causa del lockdown. Anzi, con l’alibi del lockdown da Covid-19. Visto che chi può beneficiare di un posto di lavoro degno di questo nome, anche negli Usa è a casa, ma con almeno tre settimane di paga garantita. Quando invece la tua retorica – fosse presidente Obama o Trump, poco cambia – si basa su numeri che nascondono un esercito di sottopagati senza alcuna garanzia, allora potrebbe esserci qualche problema di gestione in più.
Come mostrava chiaramente quel piccolo capolavoro che era Wag the dog con Robert De Niro e Dustin Hoffman, una guerra è quello che ci vuole per distrarre l’opinione pubblica. Se poi scatenarla potesse garantirti, come bonus, anche la possibilità di salvare – in nome del patriottismo – il comparto shale oil con un bell’intervento federale che eviti una catena di default, corporate e obbligazionari, ancora meglio.
Come si schiererà l’Italia in questa nuova geopolitica elettorale messa in campo dagli Usa, stando alle posizioni filo-cinesi, filo-Maduro e filo-iraniane di Alessandro Di Battista, la vera eminenza grigia del M5S di lotta e governo? Non mi pare proprio il momento di sbagliare mossa. L’amico Giuseppi è avvisato.