Cerchiamo di essere seri, almeno noi. Christine Lagarde ha aperto a una revisione dei criteri valutativi e di approccio dell’inflazione nell’eurozona, di fatto un’ammissione di totale sconfitta dell’idea stessa di Qe. Il quale, giova sempre ricordarlo, nasce appunto come mezzo di contrasto al rischio di deflazione e per stimolare l’inflazione fino al livello-obiettivo del 2%. Un fallimento, quindi. Ascrivibile pressoché totalmente a Mario Draghi, visto che l’ex numero uno del Fmi è subentrata solo a novembre 2019. Tre sono quindi le ipotesi, alla luce del nulla in cui si sostanziano le prospettive delle dinamiche dei prezzi nei prossimi 12 mesi.



Primo, l’inflazione alta non è un problema. Perché allora Christine Lagarde perde tempo con un non-problema, alla luce del disastro macro generato dal Covid e dal forte rischio di un secondo lockdown in buona parte d’Europa? Secondo, l’inflazione è un problema. Nel senso che serve, perché per dar vita prima e proseguire poi con pantagruelici programmi di monetizzazione del debito e deficit allegro, occorre stimolarla un po’. Un po’ tanto. Terzo e a mio avviso più probabile, si naviga a vista. In attesa di cosa? In primis, il voto presidenziale Usa. E non solo per la prossimità temporale dell’appuntamento, quanto per le mosse che questo genererà. Sia a livello di stimolo federale da parte del Congresso, sia a livello di sviluppo del Qe da parte della Fed.



Come i soldati americani e cubani a Guantanamo che giocano con “gli specchi”, ovvero si puntano il fucile addosso per deterrenza lungo il filo spinato, così le Banche centrali si muovono di riflesso l’una con l’altra, un po’ come gli ubriachi che si reggono fra loro per non cadere. Magari, così facendo, a casa sani e salvi ci arrivano per l’ennesima notte, ma, per la legge dei grandi numeri, le probabilità di finire sotto un’auto aumentano ogni giorno. Tanto più che, come era ovvio ormai da mesi, la questione europea si sta pesantemente incancrenendo.



Partiamo da un assunto: se quantomeno il Qe della Fed sta garantendo a Wall Street un rally quasi senza precedenti dai minimi dello scorso marzo, il Pepp della Bce sta di fatto soltanto mantenendo compressi gli spread sovrani e in vita alcuni soggetti bancari dalla salute decisamente precaria. Punto. Questi due grafici parlano da soli: il primo ci mostra come dopo l’ultima asta Tltro della scorsa settimana, il cui allotment è stato di 174 miliardi di euro, il livello di liquidità in eccesso nell’eurozona abbia superato la quota psicologica dei 3 triliardi di euro.

Ora, come si spiegano determinate dinamiche di interruzione de facto del meccanismo di trasmissione del credito all’economia reale, di fronte a un trend simile? L’ho detto, ripetuto e continuerò a chiederlo fino alla nausea: quanto è messo male il sistema bancario europeo per obbligare la Banca centrale a continuare con deroghe di accountability e iniezioni simili di liquidità, roba da far impallidire i tagli dei requisiti di riserva cinesi? Il tutto senza che, quantomeno in Italia, imprese e cittadini possano beneficiarne. Anzi. Quanto hanno spinto sugli assets di Level 3? Quanto si è puntato sui trading desk e sui derivati, piuttosto che sulla gestione del risparmio e l’erogazione del credito? La Bce, forse, prima di perdere tempo in sterili dibattiti sull’inflazione, dovrebbe fermarsi e dare una risposta (concreta) a questa domanda: altrimenti, inutile parlare di ripresa disomogenea, debole e ancora necessitante di stimolo. Non è la ripresa ad aver bisogno di stimolo, basti vedere gli indici di fiducia: è l’economia reale ad avere bisogno di quella liquidità in eccesso che, guarda caso, resta però ingabbiata nel sistema e nei bilanci degli istituti. Come mai? A cuscinetto precauzionale di quali inconfessabili segreti?

Il secondo grafico, poi, mostra appunto come – al netto dei dividendi – dal 2000 a oggi il return dei titoli azionari europei sarebbe addirittura negativo. Il tutto nonostante 8 anni di manovre di stimolo, in alcuni periodi addirittura alluvionali. Quindi, nemmeno l’effetto boost sulle Borse che almeno la Fed garantisce. Sicuri che il problema più grande che la Bce si trovi ad affrontare sia quello del tasso di inflazione? O, forse, stanno appunto navigando a vista e necessitano dell’ennesima cortina fumogena per evitare di fare i conti con la realtà?

E quale sarebbe, questa realtà? Semplice, la stessa che tratteggiavo nel mio ultimo articolo: l’Europa sta andando in pezzi, quasi una versione economico-finanziaria delle deriva dei continenti. Il Nord da una parte, il Club Med dell’altra. In mezzo, la Bce in versione Super Attak, tentando di tenere insieme i cocci al fine di rendere ancora appetibile per il pubblico (leggi, i mercati) quel vaso un tempo tanto prezioso, ma oggi irrimediabilmente crepato. Cosa vi dico, ormai da settimane, rispetto al grado di credibilità che merita l’attesa dei fondi del Recovery fund, quantomeno a livello di contabilizzazione ex ante di quel denaro in seno a una manovra economica? Il Governo, ormai impegnato in una suicida e patetica corsa all’innalzamento dell’asticella del ridicolo, vaneggia di un Def per il 2021 da 40 miliardi, poco meno della metà dei quali finanziati appunto da fondi europei che si punta a ottenere in anticipo rispetto alla data prevista di metà anno prossimo. Il resto, ça va sans dire, a deficit.

Guarda caso, ecco che la Germania presidente di turno dell’Unione ammette sempre più candidamente come i tempi del negoziato sui fondi rischino di slittare in avanti. E non di poco. La ragione? Quella attualmente in vigore farebbe capo alla volontà di Polonia e Ungheria di non cedere alle pressioni di Bruxelles relative al rispetto dei diritti umani e si sostanzia, di fatto, in un veto minacciato in maniera palese: per disinnescare il quale, occorrono negoziati. E tempo. Quindi, nel frattempo i soldi restano nella cassaforte. Il tutto, giova ricordarlo, in piena bufera Brexit da gestire. Di fatto, una sorta di tempesta perfetta in avanzato stato di formazione. E la Bce cosa fa? Parla di inflazione. Nemmeno in un film di Mel Brooks.

E attenzione, signori. Perché le bizze dei due Paesi di Visegrad rispetto alle questioni legate a minoranze e riconoscimento delle differenze di genere sono soltanto l’ennesimo paravento mediatico e facilmente spendibile sui social: dietro c’è ben di peggio. Molto peggio. Guardate questi due grafici e capirete a cosa sto riferendomi. Ieri all’ora di pranzo, il titolo del colosso chimico tedesco Bayer crollava del 13%, il peggior calo dai tonfi di marzo, dopo la pubblicazione di un profit warning che gli analisti vedono – stante la levatura di mercato del soggetto – come il potenziale detonatore di un’ondata di revisioni al ribasso delle valutazioni corporate per il 2021. Tradotto, downgrade del rating e tagli con il machete delle attese di profitti e utili. Non a caso, HSBC ha immediatamente abbassato la valutazione del titolo Bayer da buy a neutral, mentre il dato del market cap graficizzato parla da solo: dai 110 miliardi di capitalizzazione di metà 2018 quando acquisì il marchio Monsanto, oggi il colosso agricolo e pharma tedesco viaggia in area 55 miliardi. Dimezzato. In due anni. E al netto dell’acquisizione del concorrente più potente al mondo, di fatto rivelatosi finora soltanto un generatore di cause legali negli Usa.

Ancora peggio quanto mostra il secondo grafico, poiché il governo Merkel è stato costretto a prorogare il regime di tutela per le aziende tedesche insolventi, garantendo da ieri in poi una moratoria a copertura della legge di tutela scaduta appunto il 1 ottobre. La nuova legislazione allo studio impone ai soggetti che godranno della tutela statale dalla bancarotta un più drastico cammino di ristrutturazione del proprio debito a partire dal 2021 ma la sostanza non cambia. Anzi, si aggrava: la locomotiva d’Europa deve legiferare in via emergenziale per evitare un’ondata di default corporate.

Signori, l’Ue come la conosciamo è morta. Prendiamone atto. E smettiamola di ragionare come se i soldi del Recovery fund esistessero davvero: altrimenti, il rischio della Troika potrebbe diventare l’ultimo dei nostri problemi. Perché Berlino opererà in modo autonomo e la prospettiva peggiore ma non più peregrina, in caso il Covid metta sul tavolo il carico da novanta, è quella di una disgregazione disordinata, un Brexit totale. Uno scenario simile lo facciamo gestire da questo Governo, a vostro modo di vedere?