Volete un bell’esempio dell’ipocrisia di fondo che sta caratterizzando il financial warfare scatenatosi con le sanzioni di Ue e Usa contro la Russia? Guardate questa immagine, la quale mostra il risultato dell’emissione del primo bond di guerra da parte di Kiev, tenutasi il 1 marzo scorso. Storicamente, i war bonds sono strumenti di indebitamento sul mercato che servono appunto a sostenere lo sforzo bellico, ovvero l’acquisto di armi, le spese di difesa, ma anche quelle per garantire sollievo all’economia interna del Paese belligerante emittente.
Nessun grande fondo internazionale è intervenuto: perché tutti sono ucraini sui social, ma quando si tratta di mettere mano al portafoglio, la questione cambia. E tutti diventano ucraini in modalità Stefano Ricucci. Perché i rischi legali legati al settlement legale di quella carta sono alti. Altissimi. Quanto il rendimento offerto: 11%.
Perché allora i bond funds si sono tenuti alla larga? Semplice. In totale, Kiev ha raccolto dall’emissione 8,1 miliardi di grivnie, pari a 277 milioni di dollari. C’è un problema, però, certificato da un ente terzo e non certo tacciabile di propaganda filo-russa come Bloomberg: l’immediata partita di giro consumatasi a Kiev poco dopo il termine dell’asta, quando 300 milioni di dollari, ovvero tutto l’ammontare raccolto più qualcosina uscito dalla casse centrale, sono tornati immediatamente in circolo sotto forma di interessi in scadenza proprio il 1 marzo su un bond al 7,l75% emesso dall’Ucraina nel 2015, come parte della ristrutturazione del debito da 15 miliardi seguita ai fatti di Maidan. Insomma, i nuovi creditori hanno gentilmente finanziato quelli vecchi ed evitato un bel default di guerra a Zelensky e soci. Armi e pane possono aspettare, tanto ci pensa l’Europa.
E cosa dire della scelta europea di ampliare la lista delle banche russe estromesse da SWIFT ma esentando – chissà come mai – Gazprombank, la finanziaria del gigante energetico? Di fatto, una vera cassaforte del regime che può operare tranquillamente. Signori, mettete da parte per un attimo le emozioni e guardate queste due immagini, le quali ci mostrano quali siano le prospettive economiche che un mondo apparentemente lanciato verso un patto di mutua distruzione finanziaria sta per affrontare: stagflazione. All’ennesima potenza.
Il GDPNow della Fed di Atlanta parla chiaro: nella rilevazione del 1 marzo scorso, il Pil statunitense del primo trimestre tracciato in tempo reale segna 0%. A fronte di un’inflazione al massimo dal 1982. Conseguenza? Ovvia anche per uno studente di economia al primo anno: appunto, stagflazione. E all’ennesima potenza, appunto. Perché con il petrolio sopra 110 dollari al barile e un regime sanzionatorio che metterà volontariamente e ulteriormente il turbo al nuovo super-ciclo delle commodities già in atto, i mesi a venire saranno ben peggiori di quelli del 1973. La grande austerity, la prima crisi energetica che fece andare gli italiani in bicicletta. E con una prospettiva ancor più grave rappresentata dalla seconda immagine: i venti di guerra stanno polverizzando a tempo di record le aspettative globali di rialzo dei tassi (basti vedere l’andamento da gambero del nostro spread) e, anzi, i futures sull’euro-dollaro già prezzano un primo taglio nel 2023. Forse già nel dicembre di quest’anno.
Ma al netto delle idiozie monetarie tanto in voga, la realtà è spietata: come si combatte un’inflazione da record e destinata a rimanere di lungo termine dai trend di supply dell’energia, quando il mercato sconsiglia di alzare i tassi, ma anzi suggerisce implicitamente un po’ di espansione? Un bel cortocircuito. Nel corso del quale il rischio di rimanere fulminati sarà alto. Altissimo. Soprattutto per Paesi come il nostro, indebitati fino al collo ma ancora too big to fail. E, forse, alle condizioni attuali troppo grandi anche per una semplice ristrutturazione ordinata e parziale. E non si può tornare indietro.
La macchina del warfare è in piena attività. La spesa militare e di difesa, di fatto, sta già spingendo la crescita. Il doping ha cambiato nome e fialetta: dove nel 2021 ha operato con successo il superbonus edilizio per gonfiare i muscoli del Pil, oggi ci penserà il comparto tecnologico e militare. Basti vedere i tonfi in Borsa delle banche e il contemporaneo festeggiamento di Leonardo. Negli Usa, poi, non si bada a spese. Il Pentagono ha appena chiesto al Congresso 6,4 miliardi di dollari per far fronte alla crisi ucraina, 2,9 destinati a Kiev sotto varia forma e l’abbondante rimanente in dote alla Difesa. Come vedete, warfare al suo meglio. E l’Europa con il suo essere più realista del Re sulle sanzioni, pare non aver capito quale boomerang rischia di prendere in testa da qui a poche settimane. Quando il prezzo dell’energia sarà andato ulteriormente fuori controllo e il bando così draconiano ed esteso sulle banche russe comporterà un congelamento de facto dei flussi di pagamento sulle controparti commerciali.
Ragionate a mente fredda: facendo fallire centinaia di aziende che hanno operano un legittimo e tassato business con la Russia, pensiamo di colpire Putin o gli oligarchi? No, distruggiamo tessuto produttivo italiano. E sano. Ovvero imprese che vantano crediti, invece di accumulare debito che scaricano sui contribuenti attraverso la perpetuazione sine die dei processi di Qe e scostamento di bilancio dei governi per finanziare deficit. L’America ha le armi finanziarie e di materie prime per sopravvivere prima e poi ripartire di slancio, quando la crisi sarà rientrata nell’ambito della contrapposizione limitata a parole e minacce. L’Europa rischia di essere ridotta a un cumulo di macerie economiche. Dalle quale, state certi, neppure una Bce in modalità cannone di Goldrake riuscirà a risollevarci, Quantomeno, non tutti. E l’Italia rischia di pagare il prezzo più alto di tutti a questa follia finanziaria in atto. Non a caso, orchestrata interessatamente a Washington. E implementata a tempo di record da una Commissione Ue che ormai pare la dependance del Tesoro Usa.
Attenzione, perché adesso c’è ancora tempo per ragionare. Entro l’estate, sarà Spoon River.
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