Oggi sarò breve. Perché un fact checking, in quanto tale, deve essere schematico: servono appunto i fatti e non le parole. Cominciamo da due grafici: il primo ci mostra come nei primi quattro mesi e mezzo di quest’anno, i downgrades del rating da parte di agenzie cinesi siano triplicati rispetto al numero totale del 2020. Di fatto, una sorta di caccia grossa alle zombie firms. Il secondo grafico, invece, ci mostra come nel solo mese di aprile i buybacks sul mercato azionario Usa abbiano toccato quota 205 miliardi di controvalore, più del combinato di febbraio e marzo messi insieme.



Di fatto, Wall Street sta in piedi per auto-conservazione della Corporate America che utilizza parte dei profitti da Covid-rally per riacquistare propri titoli. Abbassa il flottante, tiene alte le valutazioni e dispensa dividendi e bonus.

Scusate, chi è lo statalista dei due? Anzi, esageriamo: chi è il comunista da schema Ponzi strutturale? Ma non basta. Bitcoin è sceso per la prima volta da 14 settimane sotto quota 40.000 dollari, cominciando a far intravedere crepe di supporto. Il tutto mentre il dollaro sta vivendo una stagione di ultra-debolezza. Di cosa hanno parlato i giornali e i telegiornali in questi giorni? I tweets di Elon Musk contro la criptovaluta e il suo enorme dispendio energetico, facendo intuire che Tesla avrebbe potuto disfarsi delle sue detenzioni di Bitcoin. Sapete invece cosa rischia di mettere seriamente in difficoltà la valuta digitale e il suo status di bene rifugio alternativo? La decisione della Cina del 18 maggio di vietare la fornitura di servizi relativi a transazioni con criptovalute a istituzioni finanziarie e aziende di pagamento, mettendo sull’attenti in contemporanea i cittadini da investimenti nel comparto.



In base al bando, le compagnie interessate non possono offrire alcun tipo di operatività che coinvolga l’uso di valuta cripto, sia a livello di registrazione che di trading, clearing e settlement. Eco sui media? Praticamente zero. In compenso, l’America che si trastulla con le speculazioni di Elon Musk – senza che la Sec abbia nulla da dire al riguardo, alla faccia della supervisione di mercato e della lotta alla turbativa -, ha apparecchiato un’Ipo miliardaria e in pompa magna a Dogecoin, garantendole un market cap che allo scorso 18 aprile (data del collocamento) era di qualcosa come 11 miliardi di dollari. Da allora, continui pump’n’dump speculativi. Nel frattempo, Janet Yellen e Jerome Powell si limitano a sporadici attacchi proprio contro il carattere meramente speculativo delle criptovalute, lasciando intendere passi regolamentari che in realtà mai verranno intrapresi. Altrimenti, perché far quotare Dogecoin con quel can can mediatico?



Il tutto, a pochi giorni dal pagamento del riscatto per l’attacco hacker contro la Colonial Pipeline, corrisposto ufficialmente proprio in criptovalute non tracciabili (balla sesquipedale, quest’ultima). Strano. Ma ancora più strano il fatto che, dopo aver direttamente chiamato in causa la Russia per quel sabotaggio, pur ammettendo di non avere prove al riguardo, Joe Biden paia intenzionato a togliere le sanzioni contro le aziende partecipanti al consorzio Nord Stream 2 e i loro Ceo: ma come, Mosca ti ha appena messo ko la seconda rete di distribuzione del carburante a livello nazionale e tu, Presidente, sembri volerla premiare con l’attenuazione del bando sanzionatorio su un’infrastruttura energetica di primaria importanza nei rapporti – anche politici e diplomatici – con l’Ue? Quale dei due Paesi prende per i fondelli i propri cittadini e il residuo di libero mercato ancora esistente, alla luce dei fatti e non dell’ideologia o dei pregiudizi?

Ma attenzione, perché mentre la Fed continua a definire transitoria l’inflazione e prosegue con la sua politica di alluvione del mercato, tanto da essere costretta a incamerare reverse repo a colpi di centinaia di miliardi ogni notte da parte di decine di bidders, questi due grafici ci mostrano come la Cina abbia davvero dato vita a una sua versione di tapering delle misure eccezionali messe in campo contro la pandemia. E ci devono far riflettere, perché non solo l’impulso creditizio ha appena virato in negativo, impiegando sette mesi di ciclo dal suo massimo contro i 9-10 storicamente registrati, ma il tasso di crescita annuale della massa monetaria M2 del Dragone è appena crollato all’8,1%, ben al di sotto del 9,2% atteso dagli analisti e poco al di sopra del minimo storico record dell’8,0%.

E cosa significa? Che per evitare l’ulteriore crescita del tasso di concessione di prestiti, esplosa nei mesi post-pandemici e già riverberatasi con bolle sugli assets azionari, la Cina chiude il rubinetto in maniera drastica, di fatto anticipando quello che sarà il trend di austerity creditizia da qui a fine anno. E se da un lato questa dinamica potrebbe portare a uno sgonfiamento delle valutazioni delle commodities tale da far rientrare nei ranghi l’attuale fiammata inflattiva già nei prossimi sei mesi, dall’altro rimane la certezza storica che virtualmente ogni assets al mondo è direttamente interessato e impattato dalla dinamica di credito cinese. Tradotto, il mondo rischia di trovarsi a dover affrontare un netto reverse della situazione di outlook da qui al prossimo anno: mentre si attrezza – già con lentezza pachidermica – ad affrontare uno scenario inflattivo, potrebbe invece ritrovarsi in un contesto simile a quello del 2011. Ovvero, un potenziale rischio di deflazione indotta dall’intervento di contrazione della Pboc, tale da prospettare uno scenario di depressione economica. Proprio mentre si dispiegavano le vele per prendere al meglio tutto il vento della ripresa post-pandemica dopata dai vari Qe.

Al netto di questa dinamica, innegabile, chi detiene il banco dell’economia globale, già oggi? La tipografia Lo Turco con sede a Washington o chi gestisce il sistema idraulico reale della finanza e fornisce liquidità all’economia e al commercio, oltre che ai mercati azionari? Vi pare davvero tanto intelligente, quindi, accodarsi ai diktat statunitensi e approcciare a Pechino come tanti maccartisti fuori tempo massimo? Forse Angela Merkel, scegliendo di mettere in corsia preferenziale l’accordo commerciale Ue-Cina lo scorso dicembre, ci aveva visto lungo. Ancora una volta. Ma si sa, per qualcuno sconta il peccato originale di essere tedesca. Per di più dell’Est, quindi ideologicamente affine ai cinesi. Quantomeno nel Dna.

Non la pensa così Mario Draghi, il quale il 17 maggio ha intrattenuto una conversazione telefonica con il Primo ministro cinese, Li Keqiang, sottolineando in particolare l’esigenza di rafforzare e rendere più equi i rapporti economico-commerciali bilaterali. «La Cina è pronta a lavorare con l’Italia per promuovere la cooperazione nei campi del commercio, degli investimenti, dell’energia e dei cambiamenti climatici», ha dichiarato il Premier cinese. Mi raccomando, ora tutti a strepitare per i diritti degli uiguri o la democrazia a Hong Kong sotto l’ambasciata di Pechino. Come da indicazione del Dipartimento di Stato.

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