La differenza tra parole e fatti è esiziale nella vita. Ancora di più negli affari. In politica, poi, rappresenta il proverbiale Rubicone. Bene, gli ultimi giorni ci hanno mostrato come gli Stati Uniti siano primatisti mondiali nell’utilizzo delle prime, mentre la Cina eccelle nel dispiegamento – anche simbolico – dei secondi. Parlando alla celebre trasmissione 60 Minutes della CBS, il numero uno della Fed, Jerome Powell, ha ammesso che l’economia statunitense sta crescendo in maniera eccezionalmente sostenuta, spinta dal driver combinato di campagna vaccinale più spedita del previsto e stimolo fiscale. Ovviamente, il governatore ha voluto rassicurare tutti, sottolineando come la Banca centrale continuerà comunque a sostenere la ripresa fino a quando necessario. Di fatto, una contraddizione palese e disarmante.
Detto fatto, però, tutti i media hanno estrapolato quella frase, utilizzandola come riassunto di un’ora di chiacchierata con Scott Pelley. Ma cos’ha detto di maggiormente interessante, Jerome Powell? «È altamente improbabile che la Fed alzi i tassi nel corso di quest’anno». Siamo già arrivati alla categoria della pre-disperazione e dell’altamente improbabile: fino a dieci giorni fa, nessuno avrebbe nemmeno posto la domanda a Jerome Powell. Oggi, dati e libri di economia del primo anno alla mano, appare naturale farlo. Qualcosa sta andando fuori controllo. E la Fed, istituzione solo apparentemente incapace di analisi che vadano al di là della modulazione del ritmo di stampa del denaro, ha già capito cosa occorre fare. Cominciare a seminare panico latente sui mercati.
Qual è infatti il principale timore per chi investe? Il cosiddetto tail risk, il rischio altamente improbabile. Qualcosa che confina parecchio con il mitologico cigno nero. Bene, Jerome Powell con le sue parole che la stampa autorevole ha sintetizzato nell’ennesima, sterile rassicurazione di rito ha appena inoculato il dubbio di quel rischio nei muscoli del sistema. Jerome Powell ha applicato la variabile AstraZeneca al mercato. Il motivo? Altrettanto semplice: la Fed può usare soltanto le parole, in questo momento. Perché ha creato una tale situazione di ebollizione fra mercato ed economia reale che ogni mossa concreta può creare l’effetto elefante in cristalleria. Quindi, ci si affida alle parole e al loro potere magico di persuasione. Ma, soprattutto, auto-alimentazione.
Qual è infatti il rischio potenziale più probabile insito in quella minaccia mascherata di possibile ritocco del costo del denaro, di fine anticipata del Nirvana dei tassi a zero perenni? Un piccolo Taper tantrum 2.0 sull’esempio di Ben Bernanke nel 2013. O di Jean Claude Trichet nel 2008 e 2011, tanto per stare in Europa. Detta in parole povere, la Fed sta creando i prodromi per l’ennesimo incidente controllato che le garantisca la possibilità di proseguire con la sua azione devastatrice degli ultimi, torturati concetti base del libero mercato. E non ci vorrà molto, stante quanto rappresentato da questo grafico: quando il market cap del mercato azionario arriva – come accaduto venerdì scorso alla chiusura delle contrattazioni – alla follia criminale di triplicare il valore del Pil, basta un niente per scatenare l’inferno. Davvero un niente.
Parole. Usate però come pietre. Le stesse, ad esempio, utilizzate da Hester Pierce durante una conferenza organizzata da MarketWatch. Per contestualizzare il tutto, occorre capire di chi stiamo parlando. La nostra protagonista è infatti una commissaria della SEC, l’ente di vigilanza del mercato Usa, ed è più nota con il suo soprannome: Crypto Mom. Il motivo? Abbastanza intuitivo: è una fan di Bitcoin e soci. E cosa avrebbe detto di tanto interessante da meritare l’attenzione, fra lo stupito e il preoccupato, degli addetti ai lavori che hanno seguito l’incontro in streaming? Una frase, semplice: I think we were past that point very early on because you’d have to shut down the Internet. A cosa si riferiva Hester Pierce, dicendo che ormai il punto di non ritorno per una determinata decisione sta per essere oltrepassato, visto che implicherebbe chiudere Internet? La messa al bando di Bitcoin negli Usa. Ipotesi di cui si sta parlando. E non poco. E rispetto alla quale, il 19 marzo scorso Ray Dalio, guru di Bridgewater, mise tutti in guardia: «Non è da escludere che il governo arrivi a una politica di divieto come per l’oro negli anni Trenta».
Ora, riflettete sulle conseguenze che potrebbe avere sul mercato un atto simile. Poi, mettete in fila le parole: Jerome Powell agita lo spauracchio del rialzo dei tassi per quest’anno, parlando di evento altamente improbabile. Ma non più impossibile, come invece prezza il mercato. Crypto Mom addirittura ventila, utilizzando la formula retorica della negazione in potenza, un lockdown temporaneo della Rete per smantellare il pericolo che Bitcoin sta assumendo ogni giorno di più per il dollaro inteso come moneta di riserva globale. Ray Dalio parla di scelta non da escludere rispetto proprio a questa ipotesi distopica e da controllo statale assoluto. Poche parole, apparentemente innocue e travisabili. Ma, in realtà, macigni. Se messe in fila.
Dall’altro lato della barricata, la Cina. La quale alle parole, preferisce i fatti. La campagna contro il pericolo interno posto dall’eccessiva finanziarizzazione delle aziende Big Tech ha appena toccato il suo acme, dopo la multa da 2,8 miliardi di dollari contro Alibaba. Reazione del mercato? Un bel +8% del colosso di Jack Ma a Hong Kong ieri mattina, il tutto in un giornata di indici asiatici negativi. La ragione? Quella di Stato. Pechino ha reso noto al mercato, coi fatti, che non intende scherzare. Lo yuan è sacro. E nessuno può permettersi il lusso di intervenire in ambito privato su materie che riguardano la moneta. Come nel finale del Grande fratello, dagli immaginari occhi di Alibaba sono scese lacrime di felice resa – in questo caso, puzzolenti di grappa alle rose e non di gin – nell’accettare l’infinita potenza dello Stato. E il mercato l’ha premiata.
Pensate che in un regime di liberismo globale, una scelta simile si ritorcerà contro Pechino, magari allontanandola ancora di più dal tanto agognato status di economia di mercato? No. Il contrario. Perché quando la pantomima sulla regolamentazione delle armi sarà terminata e magari il Nasdaq con la sua bolla minaccerà di lasciare in mutande qualche centinaio di migliaia di investitori, l’America ricorrerà al rituale coniglio dal cilindro della regolamentazione dei giganti tech, tacciandoli di violazioni della privacy, abuso di posizione monopolistica e dominante e regime fiscale iniquo. Peccato che questa volta, alle parole ritrite del Congresso, qualcuno potrà opporre i fatti della Cina: Pechino ha creato un precedente, agendo davvero a livello di antitrust. Il Paese comunista per antonomasia insegna la tutela della concorrenza alla patria del libero mercato: miracoli del Qe globale e perenne.
E se per caso Washington arrivasse davvero all’azzardo su Bitcoin, cosa opporrebbe la Cina a quella minaccia destinata a rimanere tale e sostanziarsi in un dibattito fiume per indirizzare gli indici di Wall Street? Lo yuan digitale, totalmente a controllo statale, a differenza di Bitcoin, Ethereum e compagnia cantante. In grado di bypassare non solo il regime monopolista del dollaro a livello di pagamenti globali tramite il sistema Swift, ma anche quelli sanzionatori che il Congresso impone agli Stati canaglia del momento come arma geofinanziaria. Insomma, puoi scambiare denaro senza che Zio Sam possa tracciarlo. E, quindi, saperlo. Offre tutto Pechino, comodamente. Ma, soprattutto, lo yuan digitale sconta due plus enormi, rispetto alle parole della Fed.
Primo, è già stato testato ed è pronto a ricevere l’autorizzazione ufficiale della Pboc, come riportato lo scorso venerdì dal South China Morning Post, il quale sottolineava come la moneta digitale per la prima volta in assoluto sia stata inserita nella lista di definizione della valuta fiat sovrana cinese. Insomma, legalizzazione de facto e conseguente bando di tutti i suoi competitor. Quindi, ciò che gli Usa minacciano di fare, la Cina lo sta già facendo. Senza strepiti, potendo farsi beffe di orpelli come i diritti civili e democratici. Secondo, Pechino ha testato anche l’ulteriore passo avanti verso il controllo assoluto della società digitalizzata che lo yuan elettronico le consentirà di instaurare in parallelo: la data di scadenza. Esatto, la possibilità di obbligare i cittadini a usare un determinato ammontare di denaro – elettronico – entro una certa data, predeterminata dallo Stato. Orwelliano, certo. Ma comodissimo, se per caso hai bisogno di un boost ai consumi in un certo periodo di congiuntura economica e per una determinata durata. Non vi pare?
Insomma, il sogno keynesiano proibito di amplificare la velocità della moneta sta diventando realtà, domanda e offerta sono scelti dallo Stato non solo negli ammontare ma anche nelle tempistiche. Il Leviatano. E non lamentiamoci, poiché questo grafico mostra come in nome del denaro e dei flussi di capitali esteri verso Wall Street, l’America abbia letteralmente spalancato le porte della sua proprietà intellettuale alle aziende cinesi per oltre un decennio, pur sapendo di avere a che fare con un competitor diretto che non gioca ontologicamente in base alle regole. Chi è causa del suo mal, pianga la sua crassa stupidità.
Gli Usa parlano, la Cina fa i fatti. E noi nemmeno ce ne stiamo accorgendo. Sarà per questo che Peter Thiel, cripto-entusiasta fondatore di PayPal, ha definito Bitcoin «un’arma finanziaria di Pechino contro gli Usa e lo status di riserva del dollaro» a una conferenza di primo livello alla Richard Nixon Foundation, presenti Mike Pompeo e Robert C. O’Brien, la scorsa settimana? Arrendiamoci. Oppure, proseguiamo pure con l’alibi prêt-à-porter – tornato molto in voga, ultimamente – di ritenere ascrivibile alla Germania ogni male del mondo.
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