Se a Palazzo Chigi non ci fosse Mario Draghi, oggi saremmo alla vigilia di una sostanziale apertura di crisi di governo. De facto. Se fossimo in condizioni normali, infatti, dopo che un partito della maggioranza ritira gli emendamenti per evitare la fiducia e subito dopo vota quelli dell’opposizione in contrasto alla linea di governo, il presidente del Consiglio avrebbe l’obbligo di salire al Quirinale. Quantomeno, al fine di comunicare l’avvenuto e la necessità di un chiarimento politico, seguito da una verifica parlamentare dei numeri.



Ma qui non siamo più nella normalità. Siamo nel big reset. Quindi nessuno dice nulla. In primis, duole sottolinearlo, lo stesso Quirinale. Mario Draghi sta agendo da battitore libero, sta trattando i partiti come meri portatori di voti: si scannino pure in vista delle amministrative, si lancino in poco edificanti giochi di sponda con l’opposizione. L’importante è che garantiscano formalmente all’esecutivo i voti per andare avanti lungo la sua strada, quando questi diventano davvero necessari. Altrimenti, minaccia di fiducia automatica: come un Giuseppe Conte qualsiasi.



Perché, parliamoci chiaro, la mossa della Lega equivale nei fatti a un enorme petardo. Fa un gran rumore ma pochi, pochissimi danni. Pressoché nessuno. Primo, siamo in regime di semestre bianco. Nessun concreto rischio di scioglimento delle Camere. Secondo, trattasi di sgarbo innocuo e calcolato, poiché nato come mero atto di testimonianza politica, stante i numeri che garantivano comunque al governo una maggioranza stabile.

Certo, le amministrative sono ormai alle porte e gli ultimi sondaggi danno Fratelli d’Italia come primo partito: occorre marcare il territorio. E le differenze. Rimane un fatto: l’emergenzialità della situazione, ovvero il brodo di coltura che rende possibili – e quasi quotidiane – queste impennate di orgoglio.



Oggi la Bce comunicherà al mercato le sue decisioni, dopo l’offensiva dei falchi delle scorse settimane. Dopo l’indice Ifo di agosto, martedì anche lo Zew di settembre si è letteralmente inabissato: l’economia tedesca sta rapidamente passando dalla fase di rallentamento a quella di stallo. E la ragione sta tutta nella tabella qui sotto, pubblicata dal Financial Times e non da qualche oscura testata complottista: la scarsità di componenti e materiali ha esondato il mero settore dei microchip e ormai riguarda tutti i settori produttivi dell’eurozona. Tutti, nessuno escluso.

Esattamente come per l’inflazione, per settimane bollata come transitoria, anche la narrativa della crisi dei colli di bottiglia nella supply chain globale riconducibile unicamente a un paio di hub portuali un po’ troppo affollati sta lasciando spazio alla realtà. E per chi si stesse chiedendo come sia stato possibile che il Pil dell’Ue del secondo trimestre proprio martedì sia stato rivisto al rialzo dal 2,0% al 2,2%, la risposta è tanto semplice quanto inquietante.

L’industria europea ha utilizzato tutte le scorte di magazzino possibili per cercare di imprimere un’accelerazione post-pandemica alla crescita e limitare l’incidenza degli aumenti dei prezzi delle commodities e dei trasporti sui margini operativi. Ora, però, i magazzini sono vuoti o quasi. Occorre reperire sul mercato quanto necessario all’output. Se lo si trova. E quando questo è possibile, occorre fare i conti con prezzi alle stelle. Sia delle commodities, sia dei noli per i containers che devono trasportarle.

Tradotto, il forte rischio è quello di un combinato congiunto di rallentamento della crescita e aumento esponenziale dei trend inflazionistici, poiché le aziende non riescono più a preservare i margini minimi senza scaricare parte dei costi in eccesso sulla filiera. Ovvero, sul consumatore.

Signori, l’ipotesi per l’autunno è quella di un probabile principio di stagflazione. Praticamente, il peggio possibile. Certo, da un lato, questo accadimento appare quasi rassicurante: nessuna Banca centrale, infatti, è così pazza da iniziare un processo di taper nel pieno di un rallentamento simile della crescita. Oltretutto, dopo l’alluvione di liquidità posta in essere. Più che probabile, quindi, che Christine Lagarde oggi sfidi i timori elettorali della Bundesbank e tiri dritto: Pepp fino al 31 marzo con i controvalori attuali. E, magari, persino con l’ipotesi di utilizzo integrale dell’envelop, se davvero il rallentamento della crescita dovesse peggiorare.

Quindi, pronti all’ennesima reazione da cane di Pavlov dei mercati, soprattutto quelli obbligazionari. Il nostro spread, da giorni, continua un andamento a zig-zag tipico di una pericolosa ambivalenza: da un lato, chi investe tende a vendere, perché spaventato da quanto raccontato finora; dall’altro, la Bce opera in off-setting, acquistando. Ecco quindi che il differenziale sul Bund non cala strutturalmente verso le mitiche due cifre che Mario Draghi doveva garantirgli, ma nemmeno esplode al rialzo, restando sempre al di sotto della quota psicologica di 110 punti base. Emergenza, insomma. Esattamente come quella interna che vede la Lega agitarsi, mentre Mario Draghi ne contempla indifferente le contorsioni politiche. E tira dritto.

Perché se anche, come appare più che probabile, la Bce oggi offrirà almeno altri sei mesi abbondanti di sponda e aprirà la porta, quantomeno formale, a un App che dopo la fine del Pepp proseguirà in punta di controvalori al massimo (e magari, la conferma di qualche deroga ai principi statutari del Qe), resta il fatto che il nostro Paese è sempre più attaccato al respiratore di Francoforte. Il quale, a sua volta, trae tensione per funzionare dal via libera politico di Bruxelles.

Tradotto, se da un lato il contesto macro pare escludere a prescindere un Pil al 6% e invece giustifica in pieno l’utilizzo del termine rimbalzo da parte di Mario Draghi nel descrivere le nostre prospettive di crescita, dall’altro la stagione delle verifiche pare alle porte. Perché se anche la Bce potrà farsi beffe della Bundesbank, citando le cause di forza maggiore di rallentamento e rischio Covid, non pensiate che un’eventuale prosecuzione a forza quattro del Pepp sia politicamente a costo zero.

Da ottobre, l’Ue comincerà a controllare ogni capello dell’utilizzo dei fondi ricevuti dal nostro Paese, quei 25 miliardi che potrebbero divenire gli unici realmente a nostra disposizione dei mitologici 209 strappati dal governo Conte. A quel punto, si spiegherà il perché dello stato di emergenza prorogato fino al 31 dicembre. Nessun rischio di carri armati per le strade, tranquilli. Bensì, un primo ministro che opera come un amministratore delegato di un’azienda privata: decisionista fino al totale disconoscimento delle logiche parlamentari, viste appunto come baruffe di un Cda che si può sfiduciare in ogni momento e pronto a operare in punta di maggioranza e fiducia, totalmente privo di volontà mediatoria. E con il Quirinale a garantirgli la sponda istituzionale più alta e nobile, non fosse altro per il conto alla rovescia in atto verso il cambio della guardia più alta.

Temo che l’unico ad aver capito la gravità del periodo cui stiamo andando incontro sia Carlo Bonomi, il numero uno di Confindustria. Perché, signori, riguardatevi bene quella tabella relativa alla scarsità di approvvigionamenti per le aziende europee: soltanto con le limitazioni produttive e gli stop forzati dell’industria tedesca, il Nord del nostro Paese rischia un bagno di sangue. Piaccia o meno, la subfornitura di componenti e macchinari per le fabbriche tedesche rappresenta oro per la nostra economia. E le prospettive sono decisamente fosche, all’orizzonte. Altrimenti, come spiegare che agli 87 tavoli di crisi aziendali già aperti, da oggi va aggiunto quello della Riello di Pescara, 71 operai licenziati a 19 dislocati. Motivo? Delocalizzazione, alla faccia delle promesse in tal senso del governo e degli unicorni del Pil al 6%.

Tutto si sbloccherà? Fioccheranno di colpo circuiti integrati in quantità sufficiente a invadere il mercato? Salteranno fuori nuovi containers a disposizione immediata dei trasporti merci, abbattendo i costi e tagliando i tempi di consegna? Magari sì, se credete ai miracoli. Perché il grafico qui sotto mostra l’ultimo aggiornamento dei costi per il noleggio relativo a un carrier per il trasporto fino a 5.000 autoveicoli che attraversi l’Oceano: al massimo da 13 anni.

Più facilmente, sarà un autunno di quelli da ricordare. In negativo. Perché la Bce può stampare soldi del Monopoli. Ma non semiconduttori.