Missione compiuta. O quasi. Parlando alla Fed di Chicago, martedì il numero uno della Banca centrale statunitense ha rotto gli indugi: se la guerra commerciale con la Cina lo renderà necessario, la Federal Reserve è pronta a tagliare i tassi. Esattamente ciò che vuole Trump. Da mesi. Da sempre. Ed esattamente il motivo per cui è stata fatta prima divampare, pressoché dal nulla e poi esacerbare la disputa a colpi di dazi e tariffe fra Washington e Pechino. Se fino a oggi non vi fidavate di me, rispetto a questa vulgata interpretativa dello status quo, speriamo che oggi almeno vi fidiate della realtà dei fatti. Fin troppo palese. Perché signori, c’è poco da accampare giustificazioni macro che cerchino origine e forza in quel confronto: a oggi, il dato dell’inflazione Usa parla chiaro, tutto ciò che si è ottenuto è un’esasperazione di dinamiche già gravemente orientate al rallentamento globale.



La conferma? Guardate dove sta il prezzo del petrolio, nonostante i focolai di tensione attiva, dalla Libia al Venezuela fino all’Iran e all’embargo sul suo export. Pensate che i consumatori americani, primi driver del Pil mondiale con i loro acquisti, stiano già patendo gli effetti di quella guerra attraverso l’aumento dei prezzi di frigoriferi, televisori, laptop o capi di abbigliamento made in China? Nemmeno per sogno. E non lo dico io, lo dicono calcoli dii Goldman Sachs e della Fed stessa. In base ai quali, l’impatto su portafoglio e potere d’acquisto si sostanzierà soltanto con la prossima tornata di dazi (circa 850 dollari a famiglia), quella finora solo minacciata da Trump su 300 miliardi di beni cinesi e che, invece, ha già visto Pechino intervenire con aumenti. Ma solo su 60 miliardi di merci americane. E pensate che qualche decina di dollari in più sulla spesa di una settimana possa mettere in ginocchio gli Usa o, nella fattispecie, la leadership politica di Donald Trump, a fronte di una Fed che non solo ha detto addio a ogni possibile rialzo già lo scorso dicembre con i primi tonfi sui mercati ma che ora si dice pronta addirittura a tagliare i tassi?



Avete visto il rimbalzone di Wall Street martedì, innescato proprio dalle parole di Jerome Powell nel primo pomeriggio dall’Illinois, capaci di dar vita al più potente short squeeze da cinque mesi a questa parte? E attenzione, questo dopo lo sprofondo del Nasdaq di lunedì, quando i titoli tech hanno patito il contraccolpo della notizia di una serie di inchieste federali su possibili posizioni dominanti e violazioni dalle norme anti-trust. D’altronde, se esiste un settore basato su unicorni e leva, è proprio quello che fa riferimento a mitologiche Faang e Silicon Valley in generale (ovvero, la venture capital saudita), quindi magari quelle minacce di inchieste governative non sono state lanciate a caso. Quantomeno come timing. E, magari, poi finiranno nel vuoto, esattamente come accadde per quella che coinvolse nel 2013 proprio Google. Quando i tuoi titoli sono in pancia agli hedge funds (oltre che a soggetti poco inclini alle perdite, vedi la Banca centrale svizzera, proprio nei giorni della visita di Mike Pompeo nella Confederazione…), puoi stare certo che ogni loro mossa che vada al di là dello scostamento intraday è da riferirsi a scelte strategiche, spesso e volentieri più politiche che economiche. Non certo a logiche di mercato. Quindi, stai zitto e attendi di essere ripagato, attendi il dividendo del do ut des.



Ora però occorre capire bene in quale condizione siamo, occorre mettere in prospettiva per provare a delineare il futuro che ci attende. Perché ora, signori, una volta che la modalità Qe globale sarà instaurata (in tal senso, vediamo cosa dirà Mario Draghi con riferimento all’eurozona), Usa e Cina smetteranno di abbaiare e cominceranno a farsi la guerra sul serio, vista l’agenda di egemonia globale che entrambe i soggetti hanno sui loro tavoli. L’Europa, tanto per cambiare, sarà nel mezzo, vaso di coccio tra vasi di ferro, troppo presa a farsi la guerra interna per un piatto di lenticchie. E, nel caso dell’Italia, con una bella ipoteca rappresentata dal geniale memorandum con la Cina siglato lo scorso marzo, una frettolosa e alquanto rischiosa presa di posizione.

Guardate questo grafico, il quale ci tratteggia meglio di mille numeri o dotte analisi geopolitiche, la situazione del mondo attuale. Ci mostra come, a oggi, il mercato prezzi con l’89% di possibilità un taglio dei tassi da parte della Fed già alla riunione di settembre (mentre la percentuale di chi si sbilancia per una sforbiciata addirittura già il mese prossimo, al Fomc di luglio, è salita al 53,3%): soltanto lo scorso novembre, quel numero era completamente invertito. Ovvero, l’89% dei rispondenti si diceva certo di un aumento dei tassi da parte delle Federal Reserve alla riunione di settembre 2019.

Guardate gli andamenti di quelle linee, vi pare possibile un tracciato da infartuato come quello solo per la guerra commerciale, al netto di tassi di inflazione che certificano come i prezzi non abbiano subito impennate (e quindi il potere d’acquisto non sia stato ancora ghigliottinato, se non dalla stagnazione secolare che lo contraddistingue)? Cosa dite, si sta prezzando in anticipo l’arrivo della recessione tout court, la quale in base alla serie storica di Bank of America negli Usa si sostanzia dopo tre mesi dal primo taglio dei tassi a seguito di un ciclo di innalzamento? Se così fosse e se a settembre la Fed operasse al ribasso, l’arrivo del 2020 porterebbe con sé la contrazione ufficiale. Ma, attenzione, con una Banca centrale Usa già pronta a reagire, anzi già con l’elmetto in testa dall’estate: in tempo per minimizzare il più possibile gli effetti, visto che a novembre del prossimo anno negli Stati Uniti si vota per le presidenziali.

E pensate che la Pboc non coglierà la palla al balzo per reagire di conseguenza, operando forza quattro con lo stimolo monetario di un’economia sempre più in rallentamento strutturale, oltretutto con i primi fall-out da eccesso di indebitamento (vedi le crisi bancarie e i record di default su bond aziendali) che reclamano liquidità? E la Bank of England, non reagirà? Oltretutto, con la mina Brexit che garantirà incertezza fino al 31 ottobre almeno, in pieno caos politico interno dopo le dimissioni di Theresa May? Della Bank of Japan nemmeno parlo, visto che per la 1892ma volta ha riscontrato previsioni di inflazione troppo basse, quindi ha rinviato ogni decisione di taper all’aprile 2020. E nel frattempo stampa come non ci fosse un domani.

E la Bce? Oggi, probabilmente, scopriremo qualche carta in più, in attesa che l’estate faccia divampare la guerra per la successione a Mario Draghi. C’è poi questo secondo grafico, il quale implicitamente e impietosamente sembra mettere in prospettiva la magnitudo di quanto stimolo monetario servirà per non precipitare in un altro 2008: la linea verde rappresenta l’Msci Global Index, ovvero l’indice benchmark dei mercati azionari mondiali, mentre quella rossa il dato PMI manifatturiero globale tracciato da JP Morgan.

Come vedete, la linea verde ha già cominciato a ritracciare verso il basso dai suoi massimi, in perfetta correlazione con il drenaggio di liquidità globale sui mercati, dopo le iniezioni monstre cinesi risucchiate a tempo zero da un’economia disidratata di liquidità. Per farla ripartire al rialzo serve riattivare le presse. Ma, se come ci dicevano tanti anni fa, gli indici azionari in rialzo sono e devono essere un sintomo palese del buono stato di salute dell’economia reale, ecco che che un eventuale “ritorno alla realtà” vedrebbe l’indice benchmark dover fare ancora molta, molta strada al ribasso per arrivare a un credibile re-couple con la realtà strutturale dell’economia, dalla manifattura al commercio, dai servizi alle vendite al dettagli ai dati sul Pil e sulla produzione industriale. Mentre una dinamica opposta, ovvero economia reale in boom, a questo punto sarebbe preventivabile solo con uno stimolo senza precedenti: il perfetto cane che si morde la coda. Se invece quella linea verde convergesse verso il basso in direzione di quella rossa anche soltanto per la metà del cammino che oggi le manca, il 2008 sarebbe da ricordarsi come una luna di miele con l’ottimismo e la crescita.

E signori, guardate bene dove comincia la parabola discendente dei dati macro, della linea rossa: dicembre 2017, ovvero quando la Fed prende in mano la situazione e in ossequio alla narrativa dell’economia Usa in forma smagliante (visto che, di fatto, già prezzava lo shock fiscale di Donald Trump arrivato di lì a quattro mesi), si mette ad alzare con maggiore regolarità il costo del denaro, avanzando uno scadenzario molto netto in tal senso e togliendo ogni riferimento a politiche di supporto dai comunicati ufficiali. La guerra commerciale con la Cina interviene dopo, per l’esattezza i due punti di svolta ed escalation del conflitto (prima tranche di tariffe e picco della tensione con il caso Huawei e ampliamento della platea dei dazi, dopo il fallimento dei colloqui di Washington) corrispondono con le due frecce nel grafico: certo, hanno inferto due colpi ribassisti mortali, ma il trend era segnato da tempo. È stato il classico raffreddore che uccide una persona, solo perché il suo fisico è fiaccato da ben altro e di ben più grave.

Quel trend è stato solo velocizzato e drammatizzato per l’opinione pubblica, lo si è reso “social”, per due ragioni molto chiare, tutte legate al timing. Primo, occorreva creare un alibi forte alla Fed per rompere gli indugi e anticipare gli interventi, mediatizzando la crisi e orientandola lontano dai veri colpevoli (ovvero, l’abuso strutturale di Qe da parte dei governi e delle Banche centrali). Secondo, occorreva farlo perché in questo modo, forse, l’estate 2020 vedrà l’economia Usa in fase di resilienza e magari già di timida ripartenza reale, a pochi mesi dal voto presidenziale. Il Re, signori, stavolta è davvero nudo. Conseguenze? Qui si apre tutta un’altra partita. Quella vera.