Il ministro Franco ha onorato il suo cognome. Si è presentato davanti alle Commissioni di Camera e Senato e ha detto la verità sulla vicenda Unicredit-Mps. Quasi tutta. E quasi un unicum in un Paese che sembra chiedere alla politica soltanto narrazioni rassicuranti e versioni edulcorate della realtà. Forse, un segno dei tempi. O, forse, soltanto l’approccio pragmatico di chi è con le spalle al muro. Partiamo da un presupposto: la convocazione del ministro Franco in Parlamento è stata l’ennesima pantomima della politica, entrata in modalità all-in nello spirito pre-elettorale per le amministrative di inizio ottobre e quindi interessata unicamente alla coltivazione del proprio orticello di distinguo rispetto ai compagni di viaggio dell’eterogenea maggioranza di governo. Perché pur avendo detto la verità, il titolare del dicastero di via XX settembre – in effetti – si è limitato a ripetere l’ovvio, a dire al mondo che l’acqua è bagnata. E il fuoco scotta. E lo Stato, mettendo mano al caso Mps, sapeva fin dall’inizio che sarebbe finito per bruciarsi.



Sgombriamo ulteriormente il campo da equivoci: non esistono opzioni alternative a quella di Unicredit, ritenuta una svendita, un regalo dello Stato alla banca di piazza Gae Aulenti. Già questo dovrebbe dire molto rispetto all’attrattività del più antico istituto di credito del mondo, domiciliato a Rocca Salimbeni. Gli stress test della Bce hanno parlato chiaro: Monte dei Paschi a livello di patrimonializzazione è la peggiore d’Europa. Non a caso, il ministro Franco ha detto chiaramente che le necessità di rafforzamento di capitale oggi sono ben superiori a quelle preventivate dal Tesoro. Inoltre, smettiamola dir prendere per i fondelli la gente con l’ipotesi alternativa, ovvero quell’opzione stand alone che vedrebbe Mps divenire l’architrave di un terzo polo bancario nazionale, destinato a fare da riferimento alle PMI e ai territori. Sarà già un miracolo se si riuscirà a chiudere l’accordo con Unicredit entro il 31 dicembre, data di scadenza della nazionalizzazione dell’istituto concordata con l’Europa: il brutto vizio di tornare a chiedere deroghe in corsa è tornato, cari signori. E state certi di un fatto: se andrà in porto l’operazione con i suoi sanguinosi ma ineluttabili costi ulteriori per le casse statali, qualcuno è già pronto a scaricare la colpa sull’Europa matrigna e cattiva che ha posto fine a settecento anni di storia bancaria. Magari per favorire qualche istituto tedesco o francese. Preparatevi, l’idiozia è già nell’aria. Ne si sente l’odore stantio di alibi da social network.



Mps è ridotta com’è per malagestione tutta italica, lasciamo stare l’Europa. La quale ha concordato un lasso di tempo per l’intervento risanatore dello Stato, salvo poi voler vedere ritornare la banca sul mercato. Esattamente come accaduto con Royal Bank of Scotland dopo lo tsunami del 2008. L’Italia ha detto ok e ha nazionalizzato de facto, mettendo in capo al Tesoro il 64% dell’istituto: oggi non possiamo chiedere ulteriori deroghe in nome della tutela dei posti di lavoro, perché i patti vanno rispettati. E non è certo colpa dell’Europa se la cura statale ha portato come straordinario risultato la bocciatura netta agli stress test Bce. Ed ecco il vero problema: invece di perdere tempo con la richiesta di riferire al ministro rispetto un passato noto anche ai sassi, perché non andiamo a vedere gli ultimi tre anni di gestione statale? Lo sappiamo tutti che l’ok all’acquisizione suicida di Antonveneta da Banco Santander fu benedetta dall’allora numero uno di Bankitalia, Mario Draghi, e che l’attuale amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, operò da intermediario fra Siena e Madrid. E tutti siamo consci del ruolo quantomeno funambolico cui è stato destinato l’ex ministro Pier Carlo Padoan, ora proprio alla guida di quella Mps di cui da titolare dell’Economia dovette gestire l’acquisizione statale. Tutto vero, nulla che stupisca in un Paese di intrecci, rendite e porte girevoli come l’Italia.



Cosa vogliono ottenere quelli che oggi continuano la loro campagna di difesa a oltranza di Siena, ricordando quanto accaduto? Puntano alla comparsa della macchina del tempo di Ritorno al futuro per bloccare quanto accaduto nel 2008? Oppure vogliono soltanto avvelenare i pozzi di una vicenda di mala gestio tutta italiana e tutta politica? Mario Draghi sbagliò la sua valutazione all’epoca? Probabile. O, magari, il suo sì rispose a logiche di sistema sovranazionali, in base alle quali era necessario ingoiare un boccone che si sapeva sarebbe risultato indigesto? Magari sì, assurdo negarlo o escluderlo a priori. Resta un fatto: lo Stato ha fallito. Mps oggi rappresenta un coacervo di liabilities che difficilmente si poteva immaginare soltanto sei mesi fa, quando tutti parlavano di banca risanata pronta a tornare sul mercato e la Borsa mostrava segnali di entusiasmo.

Signori, in regime di Qe perenne, la Borsa si entusiasma per qualsiasi cosa. Potreste quotare una salumeria o un ferramenta e l’IPO sarebbe un successo. Quando le cose vanno male, invece? Quando si sente puzza di ritiro degli stimoli, allora, tutto sembra crollare. E qualcuno, colto da folgorazione, si ricorda che al mondo esistono anche categorie preistoriche come i fondamentali macro (e le ratio bancarie) cui fare riferimento. Il ministro Franco non ha operato quello che gli anglosassoni definiscono sugar-coating, glassare con lo zucchero la verità per renderla meno amara: ha detto chiaro che anche il conto degli esuberi sarà alto. Molto più alto dei 2.500 messi in preventivo su 21.000 dipendenti circa.

C’è un problema, però: come al solito, si è voluto politicizzare una vicenda che è tutta tecnica. E di mercato. Mps, semplicemente, è disfunzionale. Quindi appare delirante gridare contro Unicredit che, da soggetto privato qual è, pone le sue condizioni, prima di dire sì alle nozze. Certo, il tutto appare rispondere alla logica del ti piace vincere facile, ma ponetevi una domanda, alla luce dello stato pietoso dei conti Mps emersi dagli stress test della Bce: chi ha bisogno dell’altro, Mps/Stato o Unicredit? Quindi, è normale che il soggetto privato chiamato a operare da cavaliere bianco alzi l’asticella delle proprie richieste, dovendo rispondere a un Cda e agli azionisti. Si chiama mercato, universo remoto e sconosciuto in questo Paese da partecipazioni statali perenni. Beh, il risultato di questo ruolo attivo dello Stato nel comparto bancario oggi è sotto gli occhi di tutti: un disastro epocale, una perdita di soldi pubblici a favore di un soggetto privato da gridare vendetta.

Perché non apriamo un bel dibattito sugli anni di gestione del Tesoro di Mps, più che andare a rivangare un passato ormai andato e non più soggetto a possibili ripensamenti? Forse perché così facendo non faremmo solo mera speculazione, bensì andremmo a toccare interessi vivi ancora pienamente operativi e spesso sul ponte di comando del Paese o nei suoi misconosciuti quanto potenti corpi intermedi? Sinceramente, la questione relativa al seggio senese che vede Enrico Letta candidato per il posto lasciato libero proprio da Pier Carlo Padoan appare solo uno specchietto per le allodole: se il Pd dovesse perdere Siena, saremmo all’endgame totale. Non è quello il problema, né tantomeno quello della leadership politica dell’ex Premier, la quale – con tutto il rispetto – riguarda un partito con il 20% circa dei consensi, i suoi membri e i suoi elettori. L’Italia è altra cosa. L’Italia è quel soggetto incarnato dal Tesoro che ha gettato al vento miliardi e miliardi per ritrovarsi a combattere contro la clessidra della scadenza concordata con l’Ue, forte di una banca che doveva risanare e che invece è ultima nella classifica dell’Eba.

Convocare e far perdere tempo al ministro Franco ha rappresentato l’ennesimo teatrino di una politica che ama scavare nel passato, grufolando nell’ovvio di conflitti di interesse noti anche ai bambini. Per evitare di ammettere l’unica realtà che conta: lo Stato ha fallito, lo Stato non è in grado di fare impresa. Questo è il problema, in un momento in cui si grida alle nazionalizzazioni di massa finanziate però backdoor con i fondi europei, siano essi del Recovery Plan o di Sure. Lo Stato ha buttato miliardi in Mps, non saranno altri 10 o 12 che dovrà sobbarcarsi per mandare in porto l’operazione con Unicredit che ci porteranno la Troika in casa. Una cosa però è importante: evitare una nuova Cassa del Mezzogiorno a livello nazionale, tentazione che i 209 miliardi in arrivo da Bruxelles ha fatto emergere in molti dei censori a targhe alterne che hanno scomodato il ministro Franco per il loro spot elettorale.

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