Siamo agli sgoccioli, signori. La matassa si sta dipanando e, a differenza di quanto si possa pensare, lo sta facendo molto velocemente. Quando un esponente Pd solitamente lucido e votato al realismo come Andrea Orlando si rivolge al Fatto quotidiano per mettere in guardia sull’ipotesi che nelle prossime settimane “gruppi industriali ed editori non puri” potrebbero cercare, contemporaneamente, di assaltare la diligenza dei 55 miliardi del Decreto rilancio e di cambiare la maggioranza di governo che l’ha varato, significa che il cortocircuito da panico ormai è arrivato al limite del sovraccarico. Chi siano gli editori non puri è noto, anche se Orlando ovviamente si guarda bene dal nominarli, configurando questo potenzialmente la fattispecie dell’attribuzione di fatto determinato, un aggravante in caso di querela. E da buon ex Guardasigilli, lo sa. Lo faccio io, allora: sono Urbano Cairo con il Corriere della Sera e la famiglia Agnelli con Repubblica e La Stampa, entrambe fresche di cambio alla direzione. Almeno sgombriamo il campo da quello sgradevole sentore, tutto italiano, di scagliare il sasso e nascondere la mano. I gruppi industriali incriminati? In questo caso, penso che Orlando si riferisse al vertice di Confindustria, ovvero al neo-eletto Carlo Bonomi. Il che, paradossalmente, porta con sé anche il rischio di una cooptazione nel golpe industrial-editoriale strisciante anche del Sole 24 Ore. Nemmeno Richard Nixon potè vantare una pletora di accusatori simili, dopo l’esplosione del Watergate.
Ovviamente, a corredo populista dell’accusa, ecco stagliarsi all’orizzonte la richiesta di Fca di un prestito con garanzie statali da 6 miliardi e passa, il tutto alla luce della sede fiscale in Olanda. Non a caso, l’onorevole Orlando assume il profilo del vendicatore del proletariato e del contribuente onesto: se ne parla solo se Fca torna interamente in Italia e se sospende il pagamento del dividendo. Poco importa che Fca abbia già detto che quel denaro verrà speso interamente per produzioni in Italia che si sostanzieranno in Pil italiano, stipendi pagati in Italia e contributi versati all’Inail: a Roma, una parte della maggioranza vuole lo scalpo ideologico della sede fiscale. Sentono odore di elezioni, insomma.
E fanno bene, perché questa volta il redde rationem non si può proprio rinviare ulteriormente. E il destino ha voluto che di corvée a palazzo Chigi ci fosse il Pd, ancorché non con un suo uomo ma con una coalizione che esprime il neo-napoleonico Giuseppe Conte, il quale non a caso è favorevole al prestito verso Fca. In mezzo, il nulla grillino.
Perché mi dico certo di questo? Guardate questo strappo preso dall’intervista di ieri pubblicata da Repubblica a Manfred Weber, tedesco e capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, uno stimato e voluto in quel ruolo anche dall’esponente italiano di quella famiglia politica, ovvero il Cavaliere.
Il capoverso incriminato è l’ultimo e non fa riferimento eventuale ai fondi del Mes, altro oggetto del mistero governativo degno della spada di Excalibur, bensì all’altrettanto mitologico Recovery Fund, quello su cui palazzo Chigi punta tutto proprio per finanziarsi senza dover attivare il meccanismo salva-Stati, ormai una lettera scarlatta. La risposta di Weber rispetto alla vigilanza sul corretto utilizzo dei finanziamenti è decisamente tedesca, ovvero priva anche del minimo sindacale di diplomazia: avete finito di prendere fondi europei con un vincolo di utilizzo e poi utilizzarli per la spesa corrente. Insomma, utilizzando il gergo del nascondino, potremmo parlare di tana preventiva.
E non a caso, nella sua infinita perfidia di politico navigato, Manfred Weber cita chiaramente una voce dolente: le pensioni. Dice proprio, Italia e Spagna non possono più utilizzare i fondi per tappare i buchi di bilancio o pagare le pensioni. Di fatto, lasciando intuire che questo in passato sia accaduto. E la cosa non stupisce. Qual è il problema, quello reale che mi spinge a dire come ormai la sabbia nella clessidra del Governo e della sua partita a scacchi stia terminando sempre più velocemente? Non il fatto che a ospitare l’intervista a Weber sia stata Repubblica, ovvero uno dei giornali indicati implicitamente da Andrea Orlando come mestatori nel torbido per far cadere l’esecutivo. D’altronde, il giorno prima aveva intervistato con ampio spazio e risalto lo stesso premier Giuseppe Conte, lasciandogli lanciare il poco cristallino messaggio in cui al no al Mes veniva affiancato un forse, se anche la Francia (fresca di downgrade del rating) lo attiverà.
No, la questione è più seria. Tanto seria da aver richiesto un cambio di rotta drastico e innominabile in pubblico: il Governo ha dato via libera alle riaperture di pressoché tutto ieri per la semplice ragione che l’Inps ha chiaramente detto stop, i soldi per pagare chi sta a casa a causa del lockdown non ci sono. Quindi, al netto di domande per la cassa integrazione in deroga che sono state erogate più o meno per il 20% del totale, si è messo in scena il teatrino della rivolta delle Regioni. Non a caso, il Governo ha scaricato sugli Enti locali tutti gli oneri della riapertura, come giustamente ha fatto notare il governatore della Campania, Vincenzo De Luca (Pd), il quale infatti ha bloccato ogni ripartenza nel suo territorio. Si è dato vita alla pantomima della rottura notturna, dopo che il presidente del Consiglio aveva comunicato il “via libera” alla nazione attraverso l’ennesima conferenza stampa, in churchilliana modalità The war is over: ok avere Rocco Casalino come curatore della comunicazione, ma questo appariva troppo davvero, anche per lui. In quale film sul dilettantismo politico, un premier parla al Paese sapendo di non aver ancora trovato l’accordo con le parti in causa sulla materia del contendere e di rischiare la figuraccia a strettissimo giro di posta? Dai, evitiamo di scadere del tutto nel ridicolo.
E poi, che fine ha fatto il coriaceo ministro Francesco Boccia, il fustigatore dei regionalismi in nome dell’ordine centralista, forse retaggio di una gioventù leninista? Fino a tre giorni prima, il suo aut aut alle Regioni era stato perentorio, così come le date da rispettare. Ad esempio, parrucchieri e centri estetici, bar, pub e ristoranti avrebbero dovuto attendere almeno un’altra settimana, se non il 3 giugno. Di colpo, tutto aperto. Restano fuori solo le piscine. Addirittura, miracoli dell’assegnazione dei David di Donatello con tanto di discorso ispirato del presidente Mattarella, si è fissata la data anche per la riapertura di cinema e teatri, offrendo persino le linee guida per gli eventi musicali rispetto alla massima densità di pubblico accettabile, fra sale al chiuso e location all’aperto. Tutto in due giorni, tutto senza che il ministro competente sia mai comparso o abbia mai detto bah, nonostante almeno dieci giorni di onnipresenza politico-mediatica da far invidia a un virologo.
Vi pare normale o pare anche a voi il classico frutto obbligato della disperazione? Signori, lasciando riaprire – cosa sacrosanta, tra l’altro, poiché con quel maledetto virus e il suo rischio residuo toccherà convivere per un po’ – la gente tornerà a lavorare, a guadagnare e – soprattutto – a non preoccuparsi più troppo per il futuro. Sarà impegnata a ripartire, a rimettersi in pari, a dare il massimo per recuperare il tempo (e il fatturato e gli stipendi) perduto. E magari, non avendo finora preso un euro, eviterà di portare avanti o di inoltrare del tutto la pratica per l’aiuto, ossessionando l’Inps e fornendo sempre materiale fresco per talk-show e giornali. O, comunque, riattivando l’economia, le necessità della gente saranno meno feroci e stringenti, si potrà prendere tempo. In un modo o nell’altro, comunque senza più il rischio imminente di rivolte o manifestazioni di piazza.
La situazione era già al limite con l’ordine pubblico: quando poi è arrivata la conferma dell’impossibilità concreta e contabile di erogare quanto promesso, stante il bilancio pronto a saltare, si è deciso di accelerare. Di colpo, la Fase 2 è realtà. Ovviamente, con la minaccia di chiudere di nuovo, se ripartiranno focolai.
C’è un problema, però: gli italiani, disperati come sono dopo 70 giorni da incubo assoluto, puoi anche blandirli con poco. L’Europa no. E Manfred Weber, non esattamente un falco, non fosse altro per i buoni rapporti con i vertici di Forza Italia, è stato chiarissimo, talmente chiaro da risultare luciferino nel citare la parolina magica: pensioni. Forse si evocano complotti industrial-mediatici perché occorre nascondere altro, magari un qualcosa di strutturale di cui non si può accusare paradossalmente la Germania o l’Olanda e che, soprattutto, non può trovare una soluzione nell’operatività straordinaria della Bce e dei suoi acquisti record e salva-spread, grazie ai quali ci si è fatti belli finora? Una gran rogna per il Pd, non c’è che dire. Il partito egemone dell’alternativa democratica al sovranismo che si ritrova, suo malgrado, a recitare il ruolo di potenziale curatore fallimentare del Paese. Non un bel viatico elettorale, non c’è che dire. Ma, purtroppo, temo sia andata proprio così.
Cosa accadrà adesso? Difficile dirlo, perché quando si arriva a questo livello di arrampicata sugli specchi, è l’istinto politico di sopravvivenza a prendere il sopravvento. Quindi, tutte le agende e gli schemi saltano. Come una squadra favorita dal pronostico che, al 65° di una finale secca, si trova sotto per 2 a 0: cautela nel non scoprirsi del tutto, ma, ovviamente, i centrocampisti si trasformano in attaccanti aggiunti e anche i difensori spingono sulle fasce. Sul finale, poi, avanti anche il portiere, almeno sui calci d’angolo. Temo che alle porte ci sia un OK Corral di questo genere, ancorché il destino paia segnato. Perché certamente le agenzie di rating finora ci hanno salvato, ma una di loro ha rinviato non a caso il suo giudizio, Moody’s. Potrebbe saltare fuori con una review in ogni momento, insomma. Anche perché, al netto di riaperture talmente confuse nelle normative da vedere una larga parte di esercenti preferire attendere piuttosto che muoversi al buio o con vincoli inaccettabili, il Pil potrebbe non migliorare affatto nemmeno nel terzo trimestre. E signori, se anche l’indebitamento verrà contenuto, magari utilizzando fondi europei invece di spingere come pazzi sulle emissioni del Tesoro, il rapporto che conta per la classificazione del giudizio di credito è appunto debito/Pil: se crolla del tutto il sistema industriale, compromettendo anche l’altra voce di valutazione, il downgrade a spazzatura arriverà comunque per peggioramento della dinamica strutturale. E lo stock di debito puoi anche impegnarti a ridurlo, puoi decidere di ristrutturarlo, ma la ripresa economica, partendo dai nostri livelli attuali certificati dall’Istat, è montagna ben più ripida e impervia da scalare.
Forse è questo il complotto dei gruppi industriali cui si riferiva Andrea Orlando, la grande congiura della realtà che alla fine viene a bussare alla tua porta? Cosa farà ora il Pd, comincerà anch’esso a dare la colpa al rigorismo tedesco, tramutando Manfred Weber nel capro espiatorio e dipingendolo come capo della nuova Spectre? Ecco spiegato, cari lettori, il nervosismo di Giuseppe Conte durante l’ultima conferenza stampa. Perché, con ogni probabilità, era proprio l’ultima.