Fausto Bertinotti merita un applauso. E non solo perché si erge come un gigante se raffrontato alla classe politica attuale, al cui confronto – però – in effetti ben figurerebbero nella gestione della cosa pubblica persino Fedez e Cassano. È un gigante perché, pur potendo rimanere silente di fronte a quanto sta accadendo, ha il coraggio di dire la verità: il Parlamento in Italia non conta più nulla. E per proprietà transitiva, la campagna elettorale che da settimane sta monopolizzando l’informazione, a fronte di un mondo in fiamme, equivale al rumore di fondo di un vecchio film. Mal restaurato. Di più, il voto del 25 settembre rappresenta nulla più che il contentino democratico che, ogni tot di anni, la gente vuole vedersi garantito, al fine di tranquillizzarsi rispetto al proprio status di cittadino privilegiato di una società basata sul suffragio universale. Mica come in Russia, per capirci. O negli Usa, dove la Casa Bianca è talmente messa male da costringere l’FBI a entrare ufficialmente in campo per cercare di sbrogliare la matassa.
Fausto Bertinotti è passato alla storia come il comunista chic, il compagno champagne, quello che citava Marx ed Engels indossando pullover di cachemire color pastello e lanciava la moda del portaocchiali a tracolla, quasi a complemento di cravatte in tweed di foggia irlandese. Tutto vero. Ma questa è anche e soprattutto l’iconografia da gauche caviar cui ricorre chi non ha argomenti, se non quello ritrito dell’aver fatto cadere il Governo Prodi. Fausto Bertinotti, invece, di argomenti ne ha. Politicamente e culturalmente è un gigante, appunto. Uno che ha capito questo e che ha il coraggio di ammetterlo, pur sostanziandosi questa dinamica in una sconfitta per la battaglia che lui stesso ha combattuto tutta una vita, prima da sindacalista e poi da politico: signori, ha vinto il capitale. Anzi, la finanza.
Signori, fi-nan-za. Non economia. Perché la Bce ha come unico mandato non quello della stabilità dei prezzi, stante un’inflazione arrivata all’8% perché giudicata transitoria, bensì della stabilità degli indici azionari e dei rendimenti obbligazionari. Insomma, esattamente ciò che fa la Fed: manipolare il mercato azionario e imporre una de facto politica di controllo della curva sui bond. La politica è altra cosa. Persino quella monetaria. E quei due grafici parlano chiaro: l’Italia, così come la Spagna e la Grecia, vedono garantito il loro accesso al mercato di finanziamento del debito a livelli sostenibili unicamente dalla politica di vasi comunicanti del reinvestimento titoli del Pepp. Punto. Si vendono Bund, Oat francesi e titoli olandesi a scadenza e con quanto incamerato si acquistano Btp, Bonos e titoli greci, questi ultimi in clamorosa e continuativa deroga dall’obbligo di investment grade per beneficiare delle operazioni di finanziamento di Francoforte.
E il secondo grafico è ancora più impietoso, poiché focalizzato solo sul mercato del debito italiano: dopo il flop dell’ultima emissione di Btp retail, ecco il quadro generale. Il nostro debito non ha domanda, se non dalla Bce. Certo, c’è una residuale macchiolina rossa che rappresenta le nostre banche, il mitologico doom loop fra credito e Tesoro. Ma il resto, quella vastità di azzurro che sembra il risultato di Forza Italia in Sicilia ai tempi del TG4 di Emilio Fede, è tutta domanda artificiale della Bce. Senza questa dinamica, il nostro spread sarebbe già a 300. E con l’arrivo delle prime criticità occupazionali o sul prezzo del gas in autunno, difficile escludere che potesse potenzialmente rivedere – e magari, aggiornare – i massimi del 2011.
È inutile vendere a cittadini e contribuenti mondi che non esistono. E, soprattutto, promesse irrealizzabili. Semplicemente perché nessun partito può pensare di governare in base a una propria agenda, siamo troppo indebitati per permettercelo. Meglio essere chiaro e il freno alla grandeur messo da Giorgia Meloni agli alleati ne è il più efficace degli indizi: il 90% di quanto stanno promettendo Lega e Forza Italia agli elettori è irrealizzabile. Non a caso, persino il Cavaliere ha tirato il freno sulla flat tax. Perché l’Europa direbbe no e in caso di contrasto si staccherebbe la spina della Bce. Game over. E per favore, almeno questa volta non bevetevi l’idiozia degli euro-bond, dei mini-Bot o dei Paesi stranieri amici che ci compreranno comunque il debito: non vi è bastata la cantonata del Governo giallo-verde in tal senso? Non esistono alternative.
Certo, chi oggi fa professione di atlantismo e risponde Putin chi? vi dirà il contrario, ma la storia non si cancella. Per quanto si siano volute gettare tutte le responsabilità in capo ai Cinque Stelle, fu un sottosegretario leghista a preparare il Memorandum con la Cina che di fatto sanciva l’ingresso dell’Italia nel progetto di Nuova Via della Seta. E furono ambienti leghisti a millantare prima acquisti di Btp da parte dell’amico Trump, poi da parte della stessa Cina e in ultima istanza da parte del Fondo sovrano russo. Basta fare una ricerchina nell’archivio Ansa, vi si aprirà un mondo di mitomania con pochi precedenti. Purtroppo Fausto Bertinotti, sicuramente facilitato dal suo status volontario di osservatore fuori dai giochi, ha semplicemente detto la verità: il Parlamento non conta nulla.
E non da oggi: ricordate forse serrate consultazioni prima dell’incarico a Mario Draghi? E fu giusto così: per quanto i tg ci mostrino un Paese in vacanza che si diverte fra spiagge e camminate in montagna, per quanto ci abbiano rincretinito con il Pil al 6,6% drogato fino al midollo dal superbonus (lo stesso che Mario Draghi poi ha scomunicato) e ora montino la panna con il nostro sorpasso sulle economie di Germania e Francia, siamo quelli del 2011. Anzi, peggio. E non perché la stampa pare più preoccupata di dare conto della caccia al clitoride scatenata dalla figlia di Eros Ramazzotti piuttosto che di quanto ci attende fra un paio di settimane, bensì perché nel frattempo il debito pubblico è continuato a salire, nonostante le promesse all’Europa di contenimento e diminuzione. Ed è aumentato di molto. Talmente tanto da essere, de facto, insostenibile già oggi. Altrimenti, quei due grafici non sarebbero stati necessari. Invece, siamo attaccati al polmone d’acciaio della Bce.
Nessuno, una volta eletto e insediato a palazzo Chigi, potrà fare ciò che vuole o, peggio, lasciarsi andare ad alzate d’ingegno in nome della sovranità e dell’indipendenza nazionale: nessuno è libero quando è indebitato. Forse solo il Giappone ma per dinamiche e sottostanti lontani anni luce dai nostri.
Che fare, quindi? Non sta a me dirlo, io mi sono già iscritto alla lista del 20% di italiani che quella domenica farà altro. Ma chi pensa che valga la pena recarsi al seggio, lo faccia conscio della situazione reale del Paese, cristallizzata in quelle due immagini. E se proprio volete credere a qualcosa, rivalutate la possibilità che un epilogo di ingovernabilità la mattina del 26 settembre porti a un Draghi-bis. Potreste vincere. Facile. O pensate davvero che Carlo Calenda abbia agito così senza dolo o perché mitomane o bipolare?
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