Tout se tient. Tutto si tiene, tutto è collegato. Magari, in un primo tempo, certe connessioni appaiono arzigogolate, tirate per i capelli, cervellotiche. Anzi, complottiste. Poi, di colpo, ecco che qualcosa salta fuori e tutto appare meno astruso. E decisamente più inquietante. Non a caso, la comunicazione – sia mediatica che social – sa fare ottimamente il suo mestiere: alcune notizie, vedi la pagliacciata del Qatargate, diventano immediatamente headlines e tali restano per giorni. Altre, o vengono ignorate o derubricate a brevi. Quasi sempre, questa seconda categoria si presenta sotto forma di smentita clamorosa della prima.
Ecco che lo strano ritorno di fiamma statunitense verso l’Ucraina deve quindi far riflettere. Dopo il clima da sedotta e abbandonata in cui era precipitata Kiev sul finire di ottobre, quando l’unica preoccupazione della Casa Bianca non era la tutela della democrazia mondiale ma solo lo spoglio del mid-term, di colpo ecco il coup de theatre: Volodymir Zelensky vola a Washington, incontra il Presidente e infiamma il Congresso con un discorso che gli vale i paragoni con Winston Churchill. Di più, gli Usa sono pronti a offrire all’Ucraina batterie anti-missile Patriot, di fatto divenendo parte in causa nel conflitto. Non a caso, Mosca ha alzato nuovamente i toni ed evocato la deterrenza atomica. Un dèjà vu, un passo indietro rispetto ai toni di dialogo in progress delle ultime settimane. Apparentemente, escalation alle porte.
E l’Europa? Sempre apparentemente, la questione la vede come al solito ai margini. Nonostante abbia la guerra nel cortile di casa, lascia che a decidere modi e tempi sia chi frappone un oceano fra sé e le bombe. Ma qualcosa stona. Se infatti, casualmente, in quasi contemporanea con il viaggio-blitz del Presidente ucraino, l’Ue ha raggiunto l’accordo sul price cap relativo al gas, suscitando le ire di Mosca, appare quantomeno inquietante quanto dichiarato non più tardi di ieri da Christian Zinglersen al Financial Times: Personalmente sarei riluttante nel basare l’intera strategia europea di protezione delle economie dai picchi di prezzo energetico solo tramite il price cap. Direte voi, un parere. Certo. Peccato che a fornirlo sia il capo dell’Acer, l’Agenzia europea per la cooperazione dei regolatori energetici. Come dire, abbiamo partorito uno straordinario topolino. Ma attenzione: mentre la notizia dell’accordo ha invaso gli spazi della comunicazione, questo punto di vista quantomeno preoccupante – e di un addetto ai lavori di primo piano – è passato totalmente sotto silenzio. Quantomeno in Italia.
La ragione? Semplice: il mercato spot non si allinea alle scelte di Bruxelles, bensì a quelle di mercato. O speculative. Quindi, il rischio per l’Europa è quello di precludersi una larga fetta di offerta globale. A quel punto, il prezzo salirà. Ma non basta. Restando in tema, ritengo molto interessante rendervi edotti rispetto a quanto pubblicato ieri dal Washington Post. Dopo aver intervistato 23 funzionari di 9 Paesi europei coinvolti a vario titolo nell’inchiesta sull’incidente al Nord Stream 2, il quotidiano che svelò il Watergate arrivava a scrivere nero su bianco come non esiste alcuna prova o evidenza che leghi la Russia all’attività di sabotaggio occorsa lo scorso settembre.
Ora, al netto del più classico cui prodest?, avete sentito una parola al riguardo? Nulla. Per il semplice fatto che, scartata la pista russa dagli stessi prevenuti investigatori europei che avevano subito puntato il dito contro il Cremlino, stante l’enormità e la complessità dell’operazione posta in essere, resta un solo soggetto in grado di portarla a termine. E presente nell’area. Trattasi di un acronimo di quattro lettere. E non è l’Inps. Sta venendo a galla di tutto. Come quella schiuma e quelle bolle che fecero gridare anche alla tragedia ecologica nel Mare del Nord. Ma quando hai il Qatargate che lega le mani all’Europa e la visita del Presidente ucraino alla Casa Bianca che rinfocola sopite passioni maccartiste, chi può preoccuparsi per facezie simili? A chi può importare chi abbia fatto saltare in aria Nord Stream 2 o il fatto che varando in fretta e furia il price cap l’Europa si sia candidata al Premio Tafazzi 2023?
Il problema è che non può essere solo disinformazione bellica quella in atto. Tout se tient. Ma, soprattutto, tutto gira attorno al mercato. Alla finanza. Ai soldi. E se il warfare garantisce spinta al Pil, la questione appare più complessa. Come andrà a finire la lotta contro l’inflazione? Quanto davvero saliranno i tassi, prima di far del male ai Level3 delle banche e non solo alle rate dei mutui dei poveri cristi? Quanto c’è da purgare o, al contrario, quanto c’è da preservare, prima che esploda un’altra crisi di liquidità in stile settembre 2019? Non a caso, la Cina è tornata a giocare a nascondino con il Covid. Apparentemente e pubblicamente, riduce restrizioni e tempi di quarantena. Ma ufficiosamente, fa trapelare numeri relativi ai nuovi contagi che hanno fatto dire all’Oms come la situazione appaia decisamente preoccupante.
Un’altra primavera 2020 è all’orizzonte, stante la necessità di bloccare le Banche centrali prima che qualcuno o qualcosa vada fuori controllo? Quanto accaduto ai fondi pensione inglesi deve far riflettere. Perché se in condizioni di liquidità ancora decisamente ampia, un quarto di punto può generare margin calls esiziali per oltre 5.000 fondi nell’arco di una notte, allora sotto il pelo dell’acqua sta muovendosi un iceberg quantomeno triplo rispetto a quello del 2008. Apparentemente, insomma, questo è il quadro di fine anno. La guerra serve. Talmente tanto da spingere sia l’Ucraina che gli Usa ad allungarne la durata. Con i rischi connessi. Il Covid serve, a tal punto da rimettere Pechino in modalità carramba che sorpresa! L’Europa, nel frattempo, osserva. E vara un price cap talmente autolesionista da essere sconfessato addirittura dal suo capo dei regolatori energetici.
Sicuramente, tutto questo è frutto di un’elucubrazione complottista. Almeno fino a febbraio. Poi ne riparleremo, ovviamente mentre i media autorevoli si occuperanno di altro. Come accadde con la transitorietà dell’inflazione.
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